Fascinazioni

Armand Robin

 

Ogni notte ho bisogno di diventare tutti gli uomini e tutti i Paesi. Non appena le ombre si infittiscono mi assento dalla mia vita, mentre i radio-ascolti – un dono che mi sono fatto – mi aiutano nella conquista di fatiche in verità più riposanti di qualsiasi sonno. Cinesi, giapponesi, arabi, spagnoli, tedeschi, turchi, russi fanno sopra di me il loro piccolo brusìo, mi incoraggiano a lasciare il mio recinto; salto il muro dell’esistenza individuale; tramite la parola altrui mi godo la meraviglia di festini notturni durante i quali più nulla di me sta lì a spiarmi.
Verso le quattro del mattino il mio essere vacante si fa squisito. Già da molto ho lasciato precipitare il mio corpo in un Niagara di annullamento e la sua morte mi vivifica; che importa se per qualche istante ancora biancheggia il suo desiderio che lo addormenti, quasi una schiuma rabbiosa che esige pavoneggiarsi sopra le acque nere dell’abisso? Il mio piacere sta tutto nel sentirmi alleggerito di quella creatura estranea, abusiva.
Assembrate già alle prime ore della notte, tutte le parole degli uomini in guerra danno l’assalto alla tana di grumi insanguinati che è il cuore. Proclamandosi potenti capi-popolo, si accalcano in massa marmocchi urlanti che bofonchiano, battaglieri nelle loro cicatrici; ognuno di questi pargoli si tira dietro il proprio giocattolo: milioni e milioni di uomini uccisi fisicamente, o quel che è peggio, mentalmente. Inalterabile nel mio vuoto, io divento il campo di battaglia in cui combattere non è più possibile; luogo assoluto di tutti gli scontri, annullo inerte l’universo degli scontri.
Ancora qualche istante e, stavolta, il gelo del sonno tenterà di imporre le sue braccia ghiacciate alle mie riluttanti. Quasi dei complici frementi che, più tardi, daranno origine ai miei sogni.
Quest’ultima seduzione viene messa fuori gioco dall’ultra-stanchezza: che bisogno ho di addormentarmi o di iniziare a sognare se sono già tanto imbevuto di non-essere da inebriarmene? Se resistessi ancora qualche istante nella vita altrui, alle prime luci dell’alba potrei apparire come un danzatore titubante, un sobrio ubriacone che esegue le figure del non-io.
Quando infine il sole, stratondo in volto e rosso del sangue versato stanotte, sorgerà vanitoso, sarò nella condizione di portare in un regno aldilà il sonno a quei miseri uomini che chiamiamo potenti, proprio come ai bambini malati un vaso pieno di latte da cui nulla deve cadere – e la mia testa, rivoltata da tutte le parole che causano il male, la mia testa, rivoltata da tutte le parole che causano il male, la mia testa, crepata dagli eventi della distruzione, testarda testa anti-testa, testa fatica d’una fatica otre ogni fatica, resa instancabile, instancata testa.
A quel punto, tutti quei vasti esseri corali e sussultanti, tetanizzati di soggettività, io li verserò lentamente, con attenzione: scivoleranno dal mio cervello come da un carretto, toccando terra con un rumore sordo, docile, domato.

 


A. Robin, L’indesiderabile. “La falsa parola” e altri scritti, Giometti & Antonello 2018. A cura di Antonio Malinverno.

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