Fascinazioni

Witold Gombrowicz

 

[…] Camminavo, l’erba fragrante gialla e rossa di fiorellini, l’odore, l’odore che c’era e non c’era, come quello, quella volta, laggiù, il giardinetto il muro io e Fuks che arriviamo seguendo la linea, la linea del manico di scopa, il limite del nostro allontanamento dopo avere superato la terra degli alberelli imbiancati legati ai paletti e poi la terra incolta con le erbacce e i calcinacci… e l’odore di piscio o di chissà che, nel caldo il piscio e lo stecco che già ci aspettava in quel nauseabondo e diffuso odore per poi, non subito, combinarsi con la stanga, con la stanga tra i vecchiumi nella baracca surriscaldata, con i finimenti, con i rifiuti, la porticina socchiusa e quella stanga che ci spingeva verso la stanzetta di Katasia, la cucina, la chiave, la finestra e l’edera, dove quei vari conficcamenti avevano indotto Pallina a battere sul tronco e provocato i colpi di Lena contro il tavolo, il che mi aveva spinto sul larice, le fronde, le spine, i rami portanti, sbuco fuori e là c’è la teiera, la teiera, la teiera, la quale mi getta sul gatto… il gatto, il gatto! Io e il gatto, io con il gatto, allora, laggiù, brrr, che porcheria, lo getto via!… Ci pensavo con mitezza e sonnolenza, il prato si assopiva, camminavo lentamente guardandomi tra i piedi, osservavo i fiori ed ecco che a un tratto, su un terreno piano, ero finito in trappola!
Era una trappola da niente, una sciocchezza… Davanti a me apparvero due pietre non tanto grandi, una a destra e una a sinistra e, un po’ più avanti, sulla sinistra, sporgeva una macchia di terra color caffè fatta gonfiare dalle formiche e, ancora un po’ più in là, sulla sinistra, c’era una grossa radice nera, marcita – tutto sulla stessa linea, offuscato dal sole, avviluppato di luce… Stavo già per passare tra le due pietre quando, all’ultimo momento, deviai leggermente per passare tra la pietra e la terra smossa: era uno scarto veramente minimo, un’inezia, potevo benissimo passare sia di qua che di là… e tuttavia quel piccolo scarto era infondato e questo, suppongo, mi sconcertò… per cui macchinalmente deviai di nuovo appena appena per passare, come inizialmente stabilito, tra le pietre. A quel punto però avvertii una certa difficoltà, anche se minima, dovuta al fatto che dopo quella duplice deviazione il mio intento di passare tra le pietre aveva assunto il carattere di una decisione: una decisione ovviamente insignificante, ma pur sempre una decisione. Il che era immotivato, la perfetta equivalenza di quelle cose tra l’erba non presupponeva decisioni di sorta, passare da una parte o dall’altra non cambiava niente e del resto la valle, addormentata dalle foreste, torpida, era ottenebrata, imbalsamata come un pesce morto o un ronzio di mosca. Calma. Immerso, l’occhio assorto, l’orecchio in ascolto. Di conseguenza decido di passare tra le pietre… ma nell’intervallo di quei pochi secondi la decisione è diventata sempre più una decisione… ma che decidere, visto che non c’è nessuna differenza? Per cui mi rifermo. Infuriato, protendo nuovamente la gamba per passare, come avevo deciso, tra la pietra e la terra, ma vedo che dopo quelle tre partenze passare tra la pietra e la terra non sarà più un passare qualunque, ma qualcosa di più serio… per cui scelgo di passare tra la radice e la terra… Ma qui mi rendo conto che sarebbe come ammettere di aver avuto paura, per cui decido nuovamente di passare tra la pietra e la terra… Ma insomma che succede, che è questa storia, non posso restarmene piantato in mezzo al sentiero, oh Signore, non ci saranno mica i fantasmi!… Che è? Che è? Un dolce sonno caldo di sole avvolgeva erbe, fiori, monti, non vibrava uno stelo. Non mi muovevo. Me ne stavo lì in piedi. Ma il mio stare diventava sempre più privo della capacità d’intendere, addirittura folle, non avevo il diritto di stare, era IMPOSSIBILE, DOVEVO ANDARE… e invece stavo. E allora, in quell’immobilità, la mia immobilità s’identificò con l’immobilità del passero laggiù, tra i cespugli, con l’immobilità laggiù del passero tra i cespugli, con l’immobilità del sistema là immobilmente immobile, passero-stecco-gatto, con l’inanimato incessante sistema dove l’immobilità si affastellava come mi affastellavo io lì, sul prato, nella mia crescente immobilità, incapace di muovermi… Allora mi mossi. Di colpo spezzai tutto quel che mi stava dentro, tutta l’impossibilità, e passai liscio come l’olio, senza neanche sapere di dove, perché non aveva importanza, e pensando ad altro, per esempio al fatto che lì il sole calava presto per via delle montagne. In effetti il sole era già più basso. […]

 


W. Gombrowicz, Cosmo, Il saggiatore 2017. A cura e con una postfazione di Francesco M. Cataluccio. Traduzione di Vera Verdiani.

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