Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio 2011
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PRESIDENTE. Mi pare che abbia terminato la sua testimonianza. C’è qualche domanda da fare?
CARLO LEVI. Vorrei, se mi è permesso, aggiungere ancora qualche parola nella mia qualità di testimone, o, se si vuole, piuttosto in quella, mi sia consentito, di esperto di lingua e di cose letterarie. Ho appreso dai giornali che Danilo Dolci sarebbe accusato di avere rivolto a un agente della forza pubblica una frase ingiuriosa che suonerebbe all’incirca: «Chi ci impedisce di lavorare è un assassino». Ora, io credo, pure senza essere stato presente all’episodio, di poter escludere in modo assoluto, e di poterlo provare con documenti, che il Dolci abbia pronunziato una simile frase rivolgendosi al commissario in modo ingiurioso; e questo non soltanto per le assicurazioni e le affermazioni che ho fatto prima. Una frase che suona analoga, ma che ha tutt’altro significato, dà inizio alla prima pagina del suo libro Banditi a Partinico, ed è, direi, quasi il filo conduttore di tutto il suo pensiero, l’idea fondamentale attorno a cui si organizza la sua visione del mondo e dei problemi sociali e umani. Dice questa frase, che cito qui a memoria: «Noi viviamo in un mondo di condannati a morte da noi». Sì, fino a quando esistono degli uomini condannati a non essere tali, a vivere in una condizione che è precedente alla stessa esistenza, fino a quando esiste l’esclusione e l’alienazione, noi ne siamo tutti responsabili, noi siamo tutti degli assassini. Tutti, nessuno escluso. Io sono un assassino, e anche Lei, signor Presidente, è un assassino, e anche Danilo Dolci è un assassino. Questo è il senso della frase che ritorna e domina ogni pagina di quel libro. Come Ella vede, è l’opposto di quanto si pretende che egli abbia detto al commissario. Basta aprire il libro alla prima pagina, e non occorre che saper leggere per capire il testo e il senso della frase pronunciata sulla trazzera, che, anziché ingiuriosa, è certo delle più alte e nobili che possa pronunciare un uomo. […]
Udienza del 28 marzo 1956, deposizione di Carlo Levi
Il 2 febbraio 1956 Danilo Dolci veniva arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare nella Trazzera vecchia, una strada nei pressi di Partinico abbandonata all’incuria. Al commissario di polizia che era intervenuto per interrompere quello «sciopero alla rovescia», come venne chiamato, Dolci rispose che «il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della Costituzione un dovere: che sarebbe stato, era ovvio, un assassinio non garantire alle persone il lavoro, secondo lo spirito della Costituzione». L’accusa era di occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale e a Dolci e ai suoi venne negata la libertà provvisoria. L’opinione pubblica allora si mobilitò contro la polizia e il governo Tambroni, deputati e senatori intervennero con interrogazioni parlamentari, le voci più influenti del paese si schierarono a fianco di Dolci. Ciò che avvenne intorno allo sciopero alla rovescia di Trazzera vecchia, nelle piazze, nelle camere di polizia, sui giornali, nei tribunali, fu lo scontro sui modi opposti di considerare la legalità in Italia: la Costituzione, come regola vivente dei cittadini, contro la pratica dell’autoritarismo gerarchico, eredità fascista. Da qui il titolo del libro, che significava che le autorità trascinavano alla sbarra, non tanto il gruppo dei manifestanti, quanto la Costituzione stessa.
Pubblicato nello stesso 1956, pochi mesi dopo la condanna di Dolci, Processo all’articolo 4, in quanto cronaca, è un documento prezioso per capire quanto fosse incredibilmente tribolata la strada per affermare la democrazia repubblicana in Italia. Per riflettere su dove saremmo oggi, senza «ribellioni» e «ribelli».
Un instant book scritto nella lingua parlata, che mostra prima di argomentare, che usa il montaggio di pezzi di realtà per denunciare; il cui scopo è prima di tutto in se stesso: schiudere le porte del mondo scritto agli umiliati e offesi del mondo non scritto.
Dal risvolto
D. Dolci, Processo all’articolo 4, Sellerio 2011. Postfazione di Pasquale Beneduce.
Danilo Dolci (Sesana, 1924-Trappeto, 1997), dopo l’esperienza di Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», venne a Trappeto vicino a Trapani, iniziando un’instancabile attività di animazione sociale. Tra le sue opere: Inchiesta a Palermo (1957), Spreco (1960), La struttura maieutica e l’evolverci (1996). Con questa casa editrice: Racconti siciliani (2008) e Banditi a Partinico (2009).