Celan e Chomed, ovvero dell’esilio esistenziale, di Antonio Devicienti
Invito chi non ne avesse avuto ancora l’occasione a leggere gli esemplari interventi di Massimo Palma (https://antinomie.it/index.php/2025/01/27/utopia-della-semplicita/) e di Massimiliano De Villa (https://ilmanifesto.it/tastando-via-via-le-contiguita-fra-vita-e-poesia-celan-ne-cerca-il-punto-di-sutura) i quali in maniera sensibile e approfondita scrivono della corrispondenza tra Paul Celan e Gustav Chomed di recente tradotta ed edita in italiano (P. Celan – G. Chomed, «Ho bisogno delle tue lettere», FinisTerrae di Ibis 2024. A cura di Barbara Wiedemann e Jürgen Köchel. Edizione italiana a cura di Anna Ruchat. Traduzione di Annalisa Nelson e Maria Chiara Susini) e già proposta all’attenzione di chi frequenta lo spazio delle Nature indivisibili (https://www.lenatureindivisibili.it/2024/11/23/paul-celan-gustav-chomed-ho-bisogno-delle-tue-lettere-finisterrae-di-ibis-2024/).
Avevo bisogno di questa premessa perché vorrei qui scrivere non della corrispondenza Celan-Chomed in sé, ma coglierne l’occasione per riflettere sulla valenza e sul senso di pubblicare la corrispondenza privata di Paul Celan.
A poco più di mezzo secolo dal suicidio del poeta non soltanto la sua opera in versi s’impone come ineludibile sia in sede critica che creativa (nessun poeta ormai può scrivere ignorando il lascito celaniano), ma anche alcuni scambi epistolari (a mio parere in primo luogo quelli con Ingeborg Bachmann, con Peter Szondi, con Gisèle Lestrange e con Ilana Shmueli) appaiono esemplari per la profondità concettuale e psicologica che li caratterizza.
Occorre senz’altro evitare da un lato ogni atteggiamento voyeuristico, dall’altro leggere al fine di capire la storia di una vita ed eventualmente per meglio comprendere alcuni testi celaniani che, spesso, se letti in chiave anche autobiografica smettono di essere “oscuri”.
Nel caso qui preso in considerazione l’esigua e vibrante corrispondenza con Gustav Chomed mette in luce la condizione di esilio che Paul vive da subito, cioè fin dalla deportazione dei genitori nel Lager e dalla loro morte, esilio ben più tragico e doloroso di quello (pur triste, sia chiaro) conseguente a un forzato allontanamento dalla propria terra d’origine – è l’identità più profonda della persona che subisce un’insanabile mutilazione e questo spiega pure le commoventi dichiarazioni d’affetto che intercorrono tra Paul e Gustav, la spinta a parlare senza veli delle proprie angosce e tristezze da parte del poeta, i suoi silenzi lunghi anche anni, ma, come nella sua stessa poesia, pregni di significato e di attesa.
Gustav Chomed è il legame tra Paul Celan e gli anni di Czernowitz, la confidenza esistente tra i due possiede caratteristiche peculiari proprio per questo e di conseguenza anche la corrispondenza si distingue dalle altre, numerose, intrattenute dal poeta (anche se, a onor del vero, bisogna dire che pure Ilana Shmueli lega Paul agli anni di Czernowitz, ma in tal caso esiste la variante di non poco conto della relazione d’amore tra i due, là dove Gustav e Paul coltivano una relazione che è amicizia fraterna).
Leggere il Briefwechsel Celan-Chomed significa avere la misura del fatto che esilio è non solo una condizione materiale, ma più profondamente e tragicamente esistenziale, ferita mai rimarginata per Celan il quale, pur “abitando” nella lingua tedesca (ma sentendosi sempre straniero nei suoi tour di letture attraverso la Repubblica federale) e tra le non poche lingue da cui traduceva, visse sempre una condizione di solitudine e d’isolamento – la stessa ricerca di una lingua della poesia e nella poesia, che investiva il tedesco e tutto il suo portato storico-culturale e che andava ben oltre di esso, ribadiva costantemente l’esilio da un sé che negli anni di Czernowitz aveva appena cominciato a formarsi per poi conoscere una sorta di fuga, attraverso Vienna, fino a Parigi, luogo da riconquistare al vivere giorno dopo giorno («luogo sacrificale delle tue mani» lo definisce Celan in un testo pubblicato nella raccolta Papavero e Memoria del 1952), giorni precipitati, talvolta, nei ricoveri in clinica psichiatrica (il poeta ne dà notizia a Chomed).
Paul Celan si mostra (mi si vorrà passare l’espressione?) nudo all’amico fraterno e proprio questo deve indurci a leggere la corrispondenza tra i due esercitando il pudore di chi legge per capire, di chi legge rispettando i sentimenti e le fragilità, le angosce e le disillusioni di chi ha scritto lettere che sono, malgrado tutto, una dichiarazione d’amore alla vita.
– – – E Gustav Chomed risponde sempre (oppure in taluni casi sollecita il contatto) con inossidabile affetto, anche lui in qualche modo costretto entro una condizione di esilio perché vive in Unione Sovietica negli anni più duri della Guerra fredda, così che la Cortina di Ferro è ulteriore motivo di distanza fisica tra i due corrispondenti. Ma il vero esilio è, oltre che fisico, appunto interiore, se Celan deve lottare continuamente con le ombre e con il buio che reca dentro di sé e se lo scambio epistolare conosce il paradosso di avvicinare e al contempo rimarcare la distanza fisica tra i due corrispondenti, se le rispettive patrie giacciono sprofondate e irrecuperabili nel tempo irredimibile di Czernowitz. Una “svolta del respiro” sempre cercata e mai realizzata, “cancellate della lingua” che, contemporaneamente, permettono e ostacolano il dialogo, incostante andirivieni di missive che, attraversando poco più di due decenni, fanno del tempo il luogo dell’attesa – fino al salto nella Senna.