Edward W. Said
[…] Tutte queste teorie non riescono però a nascondere completamente una realtà che non si può manipolare, che sfida qualsiasi teorizzazione, spiegazione, espressione di sentimenti o punti di vista. Mi riferisco al semplice e incontestabile nocciolo dell’esperienza palestinese negli ultimi cento anni: da secoli in una terra chiamata Palestina vi è stata una larga maggioranza costituita da un popolo, in gran parte di pastori, identificabile socialmente, culturalmente, politicamente ed economicamente come tale, la cui lingua era l’arabo e la religione (per la maggior parte) quella islamica. Questo popolo – o questo gruppo di persone, se vogliamo negargli la moderna consapevolezza di sé come tale – si è sempre identificato con la terra che coltivava e su cui viveva (poveramente o no è irrilevante); un processo di identificazione ancor più accentuatosi da quando, con una decisione quasi esclusivamente europea, venne stabilito di ricolonizzare, ricostituire e rioccupare quella stessa terra per darla agli ebrei che sarebbero stati portati lì da altri luoghi. A tale proposito, come tutti possono constatare, non c’è mai stato un solo gesto dei palestinesi volto ad accettare questa moderna riconquista o il fatto che il sionismo li abbia per sempre cacciati dalla Palestina. Perciò la realtà palestinese in quanto tale ieri come oggi, e probabilmente domani, si baserà sempre sulla resistenza a questa forma di colonialismo straniero. Altrettanto probabile è il fatto che anche in futuro continuerà a manifestarsi quella spinta, in senso opposto, che ha caratterizzato il sionismo e Israele fin dagli inizi: il rifiuto ad ammettere, e quindi la tendenza a negare, che gli arabi palestinesi esistano non solo in quanto piccolo, seccante problema, ma come un popolo indissolubilmente legato alla terra sulla quale ha sempre vissuto.
La questione palestinese è perciò essenzialmente una controversia tra un’affermazione e una negazione, ed è questa disputa originaria, che risale a più di cento anni fa, a determinare e a spiegare gli attuali problemi tra gli stati arabi e Israele. Si tratta di uno scontro che, fin dall’inizio, è stato quasi assurdamente impari. Certamente agli occhi dell’Occidente la Palestina è sempre stata un luogo dove una popolazione relativamente avanzata (in quanto europea) di coloni ebrei immigrati ha compiuto miracoli nell’edificare e civilizzare il paese e ha brillantemente combattuto guerre moderne contro quella che veniva presentata come un’ottusa popolazione di incivili indigeni arabi, essenzialmente repellenti. Non c’è dubbio che in Palestina si siano scontrate una cultura avanzata (e avanzante) e un’altra relativamente arretrata e più o meno tradizionale. Ma è necessario cercare di capire quali furono le cause di tale controversia e come esse abbiano influenzato la storia in modo tale che questa sembri ora dar ragione alle pretese sioniste sulla Palestina e screditare invece le rivendicazioni palestinesi.
In altre parole la lotta tra palestinesi e sionisti va vista come uno scontro tra una presenza e un’interpretazione, dove la prima viene costantemente sopraffatta e cancellata dalla seconda. In cosa consisteva questa presenza? Non importa quanto arretrati, incivili e silenziosi fossero, gli arabi palestinesi erano su quella terra. Leggendo i racconti di viaggi in Oriente del XVIII e XIX secolo – Chateaubriand, Mark Twain, Lamartine, Nerval, Disraeli – si trovano innumerevoli descrizioni degli abitanti arabi della terra di Palestina. Secondo fonti israeliane, nel 1822 in Palestina non c’erano più di 24 mila ebrei, meno del 10% dell’intera popolazione in stragrande maggioranza araba. È vero che nella maggior parte di questi resoconti gli arabi venivano descritti di solito come poco interessanti e primitivi ma, a ogni modo, erano presenti sul posto. Eppure quasi sempre, siccome si trattava della Palestina – e quindi, per la mentalità occidentale, di una terra caratterizzata non tanto dalla sua realtà presente e dai suoi abitanti, ma dal suo glorioso e portentoso passato, e dalle sue possibili, illimitate, potenzialità di un altrettanto glorioso futuro – questa veniva considerata come un luogo da occupare e ricostruire di nuovo.
Alphonse de Lamartine esprime perfettamente questo modo di pensare. Nel 1833, al termine di un lungo viaggio nell’area, scrisse un racconto di centinaia di pagine intitolato Voyage en Orient. Al momento della pubblicazione vi aggiunse un «Resume politique» che conteneva una serie di suggerimenti al governo francese. Benché nel libro avesse descritto numerosi incontri con gli abitanti arabi dei paesi e delle città della Terra Santa, nel «Resume» Lamartine affermò che, non trattandosi di una nazione vera e propria (e presumibilmente i suoi abitanti non erano da considerarsi dei «veri» cittadini), la Palestina costituiva un luogo ideale e meraviglioso per un progetto imperiale o coloniale francese. Egli in tal modo cancella e trascende una realtà oggettiva – gli abitanti arabi – in nome di un desiderio: che quella terra sia disabitata e quindi possa essere resa prospera da una potenza più meritevole. Ed è proprio su questo modo di pensare che si basò lo slogan dei sionisti formulato da Israel Zangwill alla fine del secolo scorso [XIX sec. n.d.r.]: «Una terra senza popolo, per un popolo senza terra». […]
E. W. Said, La questione palestinese, Il Saggiatore 2011. Prefazione di Robert Fisk. Traduzione di Stefano Chiarini e Antonella Uselli.