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QUESTE NON SONO POESIE/ SONO PAROLE MESSE IN FILA/ SE VOLETE CHIAMARLE VERSI/ CHE SIANO DI ANIMALI (…). Intervista al poeta e artista Lorenzo Cianchi. A cura di Francesca Marica

 

Caro Lorenzo, Iodio (Arcipelago Itaca, 2018, Collana Estuari) rappresenta il tuo esordio poetico. Tu sei un poeta anomalo, qualcuno direbbe appartato. A me hai ricordato subito l’uomo invisibile di Corrado Costa, quello che l’avvocato Costa racconta in The Complete Films: (…) Non riusciamo mai a sapere/ se c’è l’uomo invisibile./ Finisce sempre che l’uomo invisibile/ non si vede mai (…). Come l’uomo invisibile ci sei, ma non ti fa trovare. Non facilmente almeno. Come l’uomo invisibile, preferisci sottrarti, sparire, giocare a nascondino. Quando però vieni scoperto, inizia qualcosa di magico. Come ti sei avvicinato alla scrittura poetica? Quando l’artista Cianchi ha scoperto di essere anche un poeta?

Chi ha il coraggio di definirsi? Io assolutamente non mi azzardo, ma posso provare a capire come ho pensato di utilizzare la scrittura, e la scrittura in versi nello specifico, come strumento/mezzo.
Ho sempre letto poesia e in tanti hanno aiutato a farmela leggere meglio.
Un primissimo ricordo bizzarro dell’infanzia è legato alla mia maestra delle elementari, una suora, che accanto alle filastrocche natalizie ci faceva leggere i grandi classici, tra cui D’annunzio ma anche autori meno noti, penso ad Ada Negri. Ma al di là delle proposte scolastiche, fino ai tredici, quattordici anni, leggevo poco. Preferivo trascorrere le giornate nei campi con gli amici e quando c’era brutto tempo, corteggiavo i videogiochi o le bravate nei garage. Oggi rileggo quelle mie esperienze pre-adolescenziali e le considero una fucina di simboli e misteri, qualcosa di concreto, di vivo. La poesia quella letta, quella scritta, però si è presentata dopo. Quando, dirai tu? In prima battuta quando sono nate delle amicizie che incontravo sui libri, le cui storie mi aiutavano a riconoscermi. Poi, dopo, quando si è fatta più reale la mia ricerca nell’arte visiva; in quel momento mi sono reso conto che tutti i progetti visivi partivano sempre dalla scrittura. È stato quello il momento in cui ho cominciato ad intuire che quella mia scrittura, propedeutica ad altro, aveva in realtà un nucleo che poteva vivere da solo, anche se scorporato dalla sua finalità pratica. Come dire, era un testo a servizio che si bastava da sé. È stata una bella scoperta, pure ecologica direi.
Che altro dire? Ero e sono mosso da un’infinita curiosità per le forme e i linguaggi e mi sono divertito a sperimentarne tanti; alcuni interlocutori mi hanno rimproverato questa trasversalità; veniva vista come una forma di incostanza. Ma quello delle sperimentazioni è stato il momento in cui la poesia ha cominciato ad appartenermi ancora di più come autore, prima in maniera più spontanea poi in maniera più sistematica, Mi sono aperto alle sue infinite possibilità. Tra i tanti linguaggi corteggiati, quello della poesia è quello in cui sento di essere più incisivo, in cui sono più a mio agio. Perché non saprei, non mi chiedo mai il perché delle cose, preferisco chiedermi il come, dove, quando. E quando mi chiedo questo mi sembra che la scrittura si concentri maggiormente e nasca più forte.

Iodio, questo tuo titolo ha una genesi importante, curiosa e per nulla scontata. Ce la vuoi raccontare?

Il titolo della raccolta ha una genesi non decodificabile e mi fa piacere raccontarla.
È un titolo legato alla chimica organica. Mi spiego meglio. Nel 1972 tre scienziati scozzesi, John F. Kerr, Andrew H. Wyllie e A. R. Currie, hanno scoperto la morte programmata delle cellule, ovvero la necessità per determinate cellule del corpo, di morire per far sviluppare l’organismo. Hanno spiegato questa loro scoperta a partire da quello che avviene alle cellule della mano nel periodo fetale dell’essere umano. La mano del feto si forma come una pinna, senza distinzione tra le dita, solo grazie alla morte di alcune specifiche cellule si arriva alla separazione dei tessuti e alla formazione corretta dell’arto come lo conosciamo e lo intendiamo noi. I tre scienziati hanno chiamato questa loro scoperta Apoptosi, dal greco Apoptosis, che significa “la caduta delle foglie e dei fiori”. Questo processo di “morte programmata” può avvenire solo quando nell’organismo c’è una corretta presenza di iodio. L’assenza di iodio, il suo non corretto assorbimento o altre anomalie legate alla sua circolazione, possono portare ad una sovrapproduzione di cellule, che non morendo per creare altro, generano disfunzioni o modificazioni del DNA. La scoperta è valsa il Nobel ai tre scienziati.
Ho pensato che fosse molto interessante tutto questo discorso e l’ho preso in prestito per farlo mio. Dentro alla raccolta Iodio sono inseriti alcuni abbandoni, con il loro carico di dolore e necessità, si tratta di morti forse non programmate ma che era necessario si compissero perché altro potesse nascere.

Nella vita ti occupi di scultura e arte contemporanea, ti sei laureato all’Accademia di Belle Arti di Carrara e hai vissuto per un periodo a Tokyo. Ti sei occupato di teatro e danza contemporanea. Nel 2014 hai fondato il collettivo di design Rio Grande con Francesco Valtolina e Natascia Fenoglio. Hai oggi in attivo diverse collaborazioni con artisti visivi e performativi. Mentirei se non dicessi che questa tua provenienza dal mondo delle arti influenzi, e abbia influenzato, in modo importante anche la tua scrittura. Quel tuo sguardo concreto, ma anche severo e talvolta disilluso sulle cose, determina la forma della tua parola. Iodio è esattamente come il tuo sguardo: concreto, severo e talvolta disilluso. Ma c’è anche una leggerezza, una giocosità, un’irriverenza di fondo che mi portano a considerare questo libro una sorta di esperimento fatto di stratificazioni, dove si procede per salti, dove non esistono confini netti. Com’è nato questo libro, ce lo vuoi raccontare?

Quando sei solo un lettore, un fruitore passivo di poesia,  non ti accorgi fino in fondo quanto il termine “raccolta” sia molto puntuale per un libro di poesie perché, non sempre ma spesso, riesce a mettere insieme tutto ciò che prima viveva separato. È un lavoro di composizione e pacificazione, in un certo senso. Iodio è stato per me un lavoro di composizione e decomposizione insieme. Ad alcuni, anche amici, sembra assurdo quando dico che la scultura, la danza e la scrittura nella mia visione delle cose sono attigui, anzi, contigui alla parola. Rappresentano i dispositivi della stessa intenzione, sono espressione di un corpo che si muove nelle realtà. Antonio Rezza diceva che i testi dei suoi spettacoli nascevano dai movimenti del suo corpo che “agiva” le sculture-scenografie di Flavia Mastrella; lo trovai illuminante. Trovai illuminante che per Rezza le parole dovessero nascere da un movimento e non da un pensiero. Ovvio che le tre discipline come ogni disciplina hanno dei codici propri, degli elementi grammaticali propri con cui fare i conti, a volte da sovvertire a volte da assecondare ma questo non impedisce loro di poter vivere insieme.
Parlare, invece, della severità nei miei scritti mi da una duplice risultato, soddisfazione e frustrazione insieme. La severità però mi aiuta in questa composizione, tiene a bada certa mia anima più punk. Ho molta attrazione per i percorsi lineari di certe amiche e amici che dello studio della lingua ne hanno fatto una missione, che usano il linguaggio come forma di disvelamento. Sento invece che per me la lingua è una nebuolosa da affrontare, un intaglio da attraversare come se fossi appena approdato in questo campo, come fossi un analfabeta, uno straniero e non avendo la padronanza di un madrelingua devo tenere a bada strafalcioni e derive. E questo, a volte, può assumere un tratto un po’ severo.
Riguardo all’irriverenza si dovrebbe aprire un capitolo enorme. Forse mi conviene partire dall’ironia. Il punto di partenza potrebbe essere, certa mia matrice biografica che incide e nella mia famiglia è presente in maniera quotidiana e spontanea una forte vocazione alla narrazione velata di humor nero. Credo mi abbia allenato ad utilizzare lo strumento dell’ironia in maniera fortemente pratica sulle cose di tutti i giorni e questo in qualche modo abbia riverberato nella scrittura. Come tutte le cose familiari e assimilate ho realizzato con ritardo che fossero piene di espedienti retorici e adesso ci sto facendo i conti in maniera più razionale e non è semplice da afferrare. L’ironia, rimane comunque per me una degli strumenti più affilati che ancora posso avere a disposizione.

Vetrate della Biblioteca Comunale di Certaldo commissionate a Lorenzo Cianchi. Progetto editoriale “Io le parole le mangerei”. Foto di Ilaria Di Biagio.

  

In questa tua prima prova, attingi cospicuamente alla tua esperienza di uomo e al tuo vissuto. Anche quando scrivi intimamente di te e del tuo privato, i limiti del soggetto/oggetto narrato non sono mai però appiattiti sul solo dato reale storico e autobiografico: il soggetto/oggetto narrato viene ad assumere una posizione più universale, diventando esperienza che tenta di farsi testimonianza. Nella tua poesia si sente, ed è forte, l’attenzione al segno, all’immagine, alla vibrazione dell’elemento visivo. Dire tutto quello che è possibile attorno all’immagine e poi nasconderla, buttarla via. Tutto quello che rimane dopo averla buttata via, è la poesia, scriveva l’avvocato Costa in Il territorio alle spalle. Possiamo definire la tua poesia come quello che sopravvive a questo scarto? Possiamo dire che rappresenta, sempre citando Costa, una forma non attuata delle cose. Ti ci ritrovi?

Eh, è già molto bello che ce la ritrovi tu questa assonanza con Costa che a me onora e imbarazza (anche perché so quanto sia importante per te e per il tuo percorso poetico).
Non penso di esagerare se dico che per me l’invenzione dell’immagine da parte dell’uomo o magari solo la sua presa di coscienza è tra i più grandi eventi di trasformazione del pensiero. L’abilità di circoscrivere il reale e trarne una parte è sicuramente uno dei cardini evolutivi della nostra specie. Dal canto mio, in una chiave di analfabetismo di ritorno, mi sembra di non possedere da molto l’immagine in maniera conscia, per molti anni mi sembra di averlo fatto in maniera automatica, non consapevole. E l’immagine è costruzione, fortemente connaturata con la composizione, insomma il fondamento della poesia, fino al suo livello quasi etimologico, una delle colonne portanti insieme al ritmo e al lessico. È vero anche che l’immagine non c’è mai, devi sempre provare a crearla quando attingi dal reale. A volte in maniera più semplice, a volte con più fatica perché sfugge e si nasconde. Ma hai sicuramente ragione quando dici che da lì io parto e ed è anche vero che cerco poi di frantumarla di provare a farla diventare molte di più di moltiplicarla, fino almeno quando non diventano un habitat. Per me il massimo è quando una poesia, una raccolta intera si muove, si atteggia come un ecosistema di elementi che costantemente si sbilanciano e riequilibrano, un sottosuolo dove coesistono per esempio i sassi che hanno milioni di anni e le lattine vuote che hanno pochi mesi di vita.

Il libro parla di te, ma non si esaurisce in te. E aggiungo, per fortuna. Sembrano esserci tante forme, tante esistenze/presenze raccontate dentro Iodio, tante forme/esistenze/presenze anche geograficamente distanti e di cui talvolta si smarriscono le coordinate. La morte, la vita e l’istante vengono narrati sulla base di una deviazione continua del malinteso e la narrazione ci conduce dentro un microcosmo abitato dalla natura, dal silenzio, da elementi meccanici (fili, cavi), da molte presenze animali e vegetali ma anche da notti e sere fatte di buio, ore che cadono con il giusto rumore, ombre e comete, da un tu e un noi, che spesso sembrano non bastarsi, o meglio, cadere nell’equivoco del non capirsi.
Su questo microcosmo, incombe un senso di bellezza ma anche di frammentarietà, di provvisorietà, di smarrimento. Su questo microcosmo incorre il rischio di una frana imminente e demolitrice. Tempo fa, in un nostro carteggio privato, avevamo ragionato insieme sul concetto di frana. Che cosa salvi oggi di quello che avevamo discusso allora? 

Come ti avevo detto già allora, la categoria della “frana” che hai avanzato tu, rimane una delle più utili osservazioni critiche che qualcuno mi abbia fatto.
Credo che se ci possa essere un’impronta programmatica nel mio scrivere sia quella di un necessario autosabotaggio che è iniziato in Iodio, ma continua ancora. E la frana è questo elemento che permette di trovarsi sempre in una condizione di essere vigili e attenti alla propria condizione che è impermanente. Non c’è il malessere romantico ma un disorientamento strutturale attento e pervasivo, che vorrei conservare il più a lungo possibile. In questa grande zattera c’è però anche il mare blu, il sole, gli uccelli colorati e tante provviste, insomma ben diverso da attraversare il mediterraneo su dei barconi fatiscenti. La mia è assolutamente una condizione di infinito privilegio, non fosse altro che ho il tempo per provare a trovare i codici giusti per farmi delle domande.
Riguardo al senso della bellezza è qualcosa che si insegue di solito in maniera da rabdomante, che permea gli strati più impensabili della realtà. Lo scultore Arturo Martini diceva che è come un gatto, non la catturi la bellezza, ti si deve sedere sulle gambe lei e poi sempre decide lei quando scendere.

Disegno in copertina di Valentina Bigaran.

  

Le sezioni del tuo libro si muovono lungo tre direttrici autonome e pur tuttavia complementari: nella prima il tuo sguardo si concentra sul mondo delle cose che è esteriore, nella seconda viene raccontato il mondo interiore abitato dai sentimenti e, nella terza, si giunge infine ad abbracciare una visione di mondo più collettiva. In ognuna di queste sezioni il rischio della frana si rivela sempre presenza costante. Che tipo di osservatore della realtà sei? Penso ad Hegel e alle sue lezioni su Identità e differenza. Come riuscire a coniugare oggi, anche in ragione della pandemia che ci ha obbligato a riscrivere i nostri codici e le nostre certezze, il principio di realtà con quello necessità e apparenza e idealità?

Tu hai scomodato Hegel io vorrei a questo punto scomodare Foucault, nel suo libro “Il pensiero del fuori”, per me un libro di svolta, in cui si interroga anche su questo: la dispersione del soggetto nel linguaggio. Foucault in poche pagine propone tante cose tra cui la necessaria possibilità di mancare a una riflessione e sprona al disperdere le ricerche verso il fuori. Riprendo pari pari dal libro un passaggio che scorporato assume un tono un po’ declamativo, che non rende tanto merito alla cristallina scrittura di Foucault, ma forse aiuta a capire: “[…]non riconciliazione, ma ripetizione, non spirito alla conquista faticosa della propria unità, ma erosione indefinita del fuori[…]”. Mi sono accorto che si tende a non credere che la poesia sia una finzione letteraria, lo si è certi invece del romanzo. Il sentire comune è che se il narratore anche se in parte peschi da dati autobiografici, le sue storie le crea, del poeta si è sicuri del contrario che  parli di sé, del suo interiore, che la sua composizione sia cartacarbone a contatto con gli strati profondi, lo è anche certo a volte. Non era forse l’intenzione di Foucault ma a me è servito molto a smontare questo sentire e mi ha indirizzato verso una scrittura come pratica dello smarrimento del sé, del diluire il soggetto nel fuori. Come diceva Tiziano che mi ha consigliato questo libro: “cosa ci vuoi trovare dentro di te, cerca fuori”.

Io le parole le mangerei è un tuo progetto del 2019. Un progetto realizzato nella biblioteca comunale Bruno Ciari di Certaldo, a cui è seguita la pubblicazione di un libro edito in occasione della presentazione dell’opera. In quel progetto, l’arte visiva si fonde con la letteratura, il disegno con la scrittura e attraverso la tecnica del disegno automatico e dell’incisione su vetro, hai tradotto in immagini i racconti dei poeti Antonella Anedda, Maurizio Cucchi, Vivian Lamarque e Alberto Pellegatta. Si tratta di racconti legati al tema della libertà e il progetto ha una dimensione onirica molto interessante. Amo molto quel tuo lavoro, ce ne vuoi parlare brevemente? E poi, avviandoci alla conclusione, vuoi parlarci anche dei tuoi progetti futuri e del tuo ultimo libro uscito qualche mese fa?

Sono contento che me lo chiedi perchè tengo molto a quel progetto, dove c’è stata una convergenza di molte idee, molte persone e anche molti affetti. Il lavoro curatoriale di Michela Lupieri, le foto di Ilaria Di Biagio e la grafica di Valentina Bigaran hanno arricchito il progetto iniziale e le riflessioni delle poete e dei poeti invitati sono state incredibili. Aver avuto la possibilità di raccogliere i racconti e le riflessioni di Anedda, Cucchi, Lamarque e Pellegatta è stato davvero edificante. Questo ha permesso anche di confrontarmi più a fondo con Alberto Pellegatta che proprio in quel periodo stava mettendo in piedi la sua casa editrice Taut.
Il mio secondo libro “Il rumore dell’ultimo T-Rex” è uscito da qualche mese proprio per Taut. Ha avuto una gestazione e un editing molto attento anche da parte di Alberto. La raccolta raccoglie un po’ le eredità di “Iodio” ma cerca di confrontarsi con sistemi più ampi dell’incontrollabile e dell’individuo, ma anche di una possibile idea di collettività, come la storia, l’estinzione, la letteratura, il rumore, i sogni oscuri. Dal mio punto di vista è una raccolta che prova a continuare la decostruzione del quotidiano, ma sotto una lente distopica da romanzo di fantascienza, forse un azzardo, ma con molto divertimento. Spero di riuscire a portarla nelle piazze, tra la gente, è una raccolta che ha bisogno di incontrare.


Foto di copertina di Lorenzo Marini.

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