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Abbiamo fatto una magia – guarda. Tutta la vita che ci resta. E oltre. Dentro lo sguardo di Silvia Rosa. A cura di Francesca Marica

 

Cara Silvia, iniziamo dalla tua biografia. Poeta, curatrice editoriale, vice direttrice della rivista digitale Poesia del Nostro Tempo, redattrice della rivista Niederngasse. Hai fatto parte della redazione di Argo, Annuario di poesia e collabori con il blog Margutte dove approfondisci la poesia contemporanea italiana. Collabori anche con Il Manifesto e insieme alla scrittrice Valeria Bianchi Mian, hai fondato e curi il progetto Medicamenta lingua di donna e altre scritture, luogo privilegiato dove trovano ospitalità le donne e le loro molteplici narrazioni. Insomma, una vita dentro la poesia.
Di recente, nel mese di gennaio 2022 è anche uscito per l’Editore Vydia, nella collana Nereidi curata da Cristina Babino, il tuo nuovo libro, Tutta la terra che ci resta. Un libro che sembra segnare una linea di demarcazione abbastanza netta rispetto alla tua produzione in versi precedente. È così, sei d’accordo? Vuoi parlarcene? Quali nuove esigenze hai avvertito mettendoti in ascolto e in osservazione del mondo circostante e come le hai tradotte quelle nuove esigenze sul piano formale e contenutistico?

Intanto grazie per questa generosa e dettagliata presentazione! Sì, Tutta la terra che ci resta è una raccolta poetica che segna una cesura con quanto ho scritto finora, anche se in trasparenza restano comunque visibili alcuni scorci di quel paesaggio ideativo da cui si originano i miei versi, declinato in luci e ombre che di volta in volta ne mettono in rilievo porzioni e angolature diverse. La mia poesia è stata spesso definita lirico-confessionale, ma nel nuovo libro ho abbandonato l’Io e l’imprinting più strettamente autobiografico, per lasciare spazio a una visione corale e oggettiva, frutto di una scrittura che mi piace definire “a freddo”, in cui l’emotività è controllata, tenuta rigorosamente a freno, e i riferimenti sono il più possibile a fenomeni concreti, materici. Le scelte lessicali hanno richiesto minuziose ricerche, perché mi sono confrontata con alcune microlingue settoriali, in particolare quelle relative all’ottica, all’oculistica, all’informatica, per meglio aderire alla realtà che volevo descrivere.
Uno dei fulcri tematici di questo libro è l’impatto della quarta rivoluzione industriale sulle nostre vite. Il discorso è incentrato su un cambiamento di prospettiva ˗ da qui il costante riferirsi alle patologie della vista e alla scienza ottica ˗ che vede l’essere umano andare in direzione di una trasformazione radicale, così come ipotizzato dalla teoria del transumanesimo. L’atmosfera che si respira tra i versi è distopica e in parte risente delle suggestioni che mi ha ispirato una serie fotografica in bianco e nero dell’amico fotografo Fabio Trisorio. I testi parlano tutti in prima persona plurale, non esiste alcun Io, nessun volto riconoscibile, e sono spesso costellati di domande, un rimando alle lettrici e ai lettori, che vengono interpellati solo nella prima poesia e nell’ultima, con l’invito diretto a guardare quel Noi che si racconta e si svela progressivamente.
In passato mi succedeva spesso che le persone, leggendo i miei testi, mi dicessero che avevo dato forma e voce alle loro emozioni, che avevo descritto perfettamente come anche loro si sentivano o quello che in certe situazioni avevano provato a esplicitare ma senza trovare le parole giuste per rappresentarlo.
Con questo libro spero di aver incarnato le inquietudini di una generazione che si trova davanti alla fine del mondo, o almeno, di quel mondo che ha abitato per diversi decenni. Penso che noi nati tra gli anni ’70 e ‘80 del Novecento siamo testimoni di un’epoca che è tramontata, anche se non è ancora del tutto evidente che lo sia, perché resta qualche bagliore all’orizzonte che ci illude del contrario, ma al contempo, siamo stati capaci di adeguarci alle innovazioni che la rivoluzione tecnologica in corso ha portato con sé, meglio forse delle generazioni precedenti, occupando da protagonisti quei luoghi virtuali in cui ci muoviamo quotidianamente, pur non essendone nativi. Forse noi non riusciremo a vedere il cambiamento nella sua compiutezza, il nostro destino è abitare la cerniera del tempo che unisce due paradigmi epocali, e non avremo risposte alla domanda su come l’umanità andrà evolvendosi, in quale direzione dal punto di vista etico.
Nelle opere precedenti ho indagato con lo strumento dell’introspezione l’interiorità soggettiva e lo snodo centrale che orienta l’esistenza e il destino dell’individuo quanto si muove nel territorio friabile della relazione con l’Altro, ho cercato un dialogo a tu per tu con la lettrice e con il lettore, una forma di riconoscimento reciproco, a partire da esperienze universalmente rilevanti e condivise, raccontate però da un preciso punto di vista, quello dell’Io narrante. Con Tutta la terra che ci resta ho descritto nel modo più oggettivo possibile una scena, come si trattasse di un fotogramma di un film o di un’istantanea, utilizzando un linguaggio preciso, specialistico, asettico, e ho consegnato questo materiale visivo a chi legge, perché possa rispecchiarsi in quel Noi che popola lo scenario evocato e all’improvviso sentirsene parte, ritrovarsi protagonista dell’universo dalle sfumature grigie e dalle atmosfere apparentemente surreali che prende forma nei versi, chiedendosi se si sente a proprio agio oppure no.

Facciamo un passo indietro e soffermiamoci su alcuni tuoi libri precedenti, due in particolare, Tempo di riserva (Ladolfi, 2018) e Genealogia imperfetta (La Vita Felice, 2014). Che rapporti esistono tra questi due libri e il tuo più recente? Che passaggi di testimoni ci sono stati, se ci sono stati? Com’è cambiata la tua scrittura negli anni?

Di recente la poeta e critica Franca Alaimo ha firmato una bellissima recensione a Tutta la terra che ci resta tracciando un percorso di senso tra questo ultimo libro e i precedenti, alla ricerca non tanto delle differenze, quanto piuttosto di quel trait d’union che compone di opera in opera l’identità della mia scrittura. Per me è si è trattato di un prezioso dono: lo sguardo competente della Alaimo si è soffermato a leggere con attenzione anche quanto non appare subito esplicito, dando così riconoscimento a un percorso di scrittura che ha attraversato diverse stagioni. Vorrei prendere in prestito le sue parole, perché non penso di poter dire meglio: “Silvia Rosa ci aveva avvertito, prima di dare alle stampe il libro, di avere scritto qualcosa di diverso rispetto alle sue precedenti pubblicazioni. Ed è vero, ed allo stesso tempo non lo è. La sua poesia continua, infatti, ad avere quella appassionata glacialità che l’ha sempre contraddistinta, nel tentativo di evitare traboccamenti emotivi e raccontare con la maggiore lucidità possibile e assoluta concentrazione quanto sta davanti e dietro l’occhio. Il suo modo di curvarsi a considerare le proprie ferite interiori somiglia alla memoria di una tempesta già sedata che però lascia il suo boato nell’orecchio; allo stesso modo, in questo suo ultimo libro, Rosa fa uso dei linguaggi della tecnologia e delle scienze biologiche come di altre discipline, così come di un dettagliato e contemporaneo apparato iconico-rappresentativo (cosa assai rara nella poesia femminile), per indebolire la forza emotiva di uno smarrimento profondo.
La sensazione che ne deriva è la stessa: un movimento conoscitivo che attesta la solitudine creaturale e la corrente crudele del vivere.
Silvia, in questa raccolta, invece che aggirarsi tra le macerie della sua infanzia, si muove tra oggetti dello spazio esterno, alienanti, duri, soffocanti, senza altro colore che il grigio, a cominciare dal cielo, che ha a che fare con il ferro, velature di piombo, nebbie, piogge monotone, cancellate ogni vividezza cromatica, ogni lucentezza gioiosa. E lei, nell’uno e nell’altro caso, sembra simile ad una statua ferma sotto l’ombra del dolore e/o del nulla che incombe.
Eppure ci sono fessure nel suo pensiero, irruzioni immaginative, frammenti memoriali, che persistono nel tentativo di dare senso e significato alla vita, segnalando la resistenza di zone intatte di fiducia, il che significa, di conseguenza, sottrarre sé stessa e la poesia all’autodistruzione, riportando la seconda a quella funzione di riparazione, su cui scrisse con grande incisività il poeta irlandese Seamus Heaney, che conclude il saggio Frontiere della scrittura con questa affermazione: «dentro di noi come individui possiamo riconciliare due ordini di conoscenza che potremmo chiamare pratica e poetica; affermare anche che ciascuna delle due forme di conoscenza ripara l’altra, e che la frontiera che le divide è lì per essere attraversata
».”
Quello che è rimasto identico nel tempo è il mio modo di concepire la poesia come luogo della cura, in cui narrare e ridefinire il dolore, o qualsiasi altro sentimento, in cui provare a mettere insieme tutti gli elementi della realtà creando una composizione inedita, una nuova visione, una differente interpretazione degli stessi, un mondo distinto che è capovolgimento salvifico e illuminante.
Mi ero comunque già interessata della relazione tra realtà e nuove tecnologie in SoloMinuscolaScrittura (La Vita Felice, 2012): si tratta di un libro scritto in prosa poetica, che narra una storia d’amore attraverso una serie di sms inviati a un Tu che non si rivela e non risponde mai. I caratteri che compongono ogni testo corrispondono a quelli contenuti nel numero massimo di sms che si potevano mandare con un solo invio (stiamo parlando ovviamente di un tempo che precede l’avvento degli smartphone). Ogni testo ha un titolo in progressione: sms #1, sms #2, ecc. La mia idea era rovesciare il paradigma coevo, in cui la lingua si doveva adattare allo strumento utilizzato nella comunicazione mediata: frasi e parole abbreviate, utilizzo di simboli, emoticon, ecc. Ecco, io ho provato a fare il contrario, a piegare il medium alla lingua poetica. Si è trattato di un esperimento molto interessante, i cui esiti sono stati apprezzati anche da giovanissimi lettori, infatti il libro ha ricevuto il Premio Speciale della Critica Giuria Scuole alla VI edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Sassari: confesso che questo riconoscimento, assegnato dagli studenti delle superiori, è in assoluto quello di cui vado più fiera!

La visione del mondo presente, anche nelle sue accezioni e rappresentazioni di globalizzazione economica e tecnologica, ci obbliga a una riflessione sul concetto di realtà. Come possiamo definire la realtà? Esiste una linea di frontiera tra realtà e finzione? Marc Augé in Che fine ha fatto il futuro? (Elèuthera, 2009), recuperando il concetto di eruzione storica e analizzando la dipendenza dell’uomo dai mezzi di comunicazione, ha ipotizzato una prossima e totale dipendenza dell’uomo dai quei mezzi. C’è chi ha parlato in proposito di realtà mediatizzata. Il tuo ultimo libro cerca di mettersi in ascolto anche di questa possibilità non così remota. Che riflessioni ti senti di condividere su questo aspetto?

Quando si parla di realtà mi viene in mente uno dei saggi più famosi di sociologia della conoscenza, che molto ha influenzato la mia formazione ai tempi dell’università, “La realtà come costruzione sociale” di Berger e Luckmann (1966). La cosiddetta realtà in cui siamo immersi, la società in cui ci muoviamo, altro non sono che un prodotto umano, il quale cristallizzandosi si offre poi alla nostra esperienza come qualcosa di oggettivo ed esterno a noi, interiorizzato e riprodotto nel tempo dai nostri stessi comportamenti. La conoscenza che noi abbiamo della realtà in cui siamo immersi è relativa al nostro contesto, alla posizione storica e sociale che occupiamo. Quando osservo come si sta modificando la società coeva provo molta ansia, perché interpreto il reale dal punto di vista di una persona che ha abitato il Novecento e che di fronte alla rivoluzione digitale annaspa un pochino. Quando ascolto come si andrà configurando il nostro quotidiano nel prossimo futuro cerco di sospendere il giudizio, ma in fondo non sono molto ottimista. Proprio l’altro giorno ho assistito a una conferenza online del Politecnico di Torino in cui si discuteva di intelligenza artificiale, clima, rivoluzione digitale, e di come in futuro ci sarà una sempre più stretta connessione tra tecnologia e corpo umano, attraverso dei sensori via via più evoluti che permetteranno un collegamento diretto tra mente e apparati tecnologi. Insomma, la strada che abbiamo imboccato va anche verso una ibridazione tra uomo e tecnologia. Gli esperti parlano di novità che possono solo migliorare la nostra esistenza, ma l’incognita è se davvero l’essere umano userà le nuove tecnologie ad esempio per salvare la terra dai disastri a cui sta andando incontro a causa del cambiamento climatico, o per liberare sé stesso dal lavoro redistribuendo le ricchezze tra tutta la popolazione, e via così. In che modo e all’interno di quale cornice etica l’umanità andrà affrontando le sfide di questo cambiamento epocale? In Tutta la terra che ci resta non ho nascosto la mia inquietudine di persona comune, che non ha conoscenze specialistiche in merito, e che si trova a fronteggiare nella vita di tutti i giorni la pervasività di questo nuovo modo di stare al mondo, guardando a quanto è andato e andrà perduto e interrogandosi sull’esito finale di questa trasformazione. Senza trovare risposte.

Nella prefazione al tuo ultimo libro, Elio Grasso allude “alla smisurata testardaggine della poesia a saggiare quanto la lingua ancora può”. Alfredo Giuliani, nel saggio L’ideologia non supplisce il mestiere, ha scritto che “la poesia comincia là dove c’è una tendenza” sottolineando come per il poeta “la ricerca del contatto con le forme linguistiche della realtà sia la principale occupazione (il resto gli viene dato dalla fortuna)”. E Aldo Tagliaferri in un suo intervento critico poi confluito in Critica e Teoria (Feltrinelli, 1976) si è domandato se la letteratura abbia una capacità di contestare e, se sì, cosa possa contestare.
Prendendo spunto da queste tre premesse, ti chiedo: che rapporti esistono tra lingua poetica e realtà? Quando la lingua di un poeta può dirsi oggi rivoluzionaria ed eversiva?

Ho sempre creduto che il fine della poesia sia forzare i confini di significato del linguaggio, sperimentare la sorgiva potenza della parola per cogliere l’evidente e l’insondabile che attraversano l’essenza delle cose e dell’umano. La poesia ci costringe a guardare dritto l’abisso, il vuoto in cui precipitiamo senza ancoraggi a una narrazione che nomini ogni aspetto del reale. Allo stesso tempo, però, ci ricorda come un monito che oltre tutte le confortevoli narrazioni che imbastiamo, spesso logore e appiattite, l’universo è qualcosa che il nostro linguaggio non riesce a descrivere e raccontare nella sua interezza, e quindi ci mette di fronte al nostro limite ultimo: fino a che punto le nostre parole possono spingersi per incarnare il reale? Fino a che punto possono creare microcosmi compiuti per poi trascenderli, superarli? La poesia è un tentativo di aderire alla realtà attraverso una torsione dello sguardo, che ne evidenzia gli aspetti più reconditi, ma è anche un corpo a corpo con la parola, una frattura del respiro: dà un senso al mondo e fonda relazioni anche immaginarie con tutto quanto ci circonda, non solo con le persone, è in un certo senso un codice visionario e musicale con cui si parla di tutto quello che conta davvero, una formula magica, come nei giochi d’infanzia, che nomina il mondo, e nominandolo lo ricrea, lo schiude a una nuova visione e a una più approfondita comprensione. Questa per quanto mi riguarda è già una postura rivoluzionaria ed eversiva, perché si riappropria della capacità del linguaggio di generare nuovi significati, di capire in profondità il reale e di trovare modalità sempre inedite di rappresentarlo e di incarnarlo, lontano dai voli pindarici dell’astrattismo e del tecnicismo esasperato o dalla piatta e ripetitiva banalità, che sono i due poli opposti di un uso della lingua sterile. La sfida per chi oggi scrive poesia credo stia nell’adoperare il linguaggio nella maniera più creativa possibile, conquistando una voce propria, cioè arrivando a esprimersi in modo unico, non confondibile. Per me l’efficacia comunicativa della parola poetica, la sua potenza rivoluzionaria, si realizza quando c’è equilibrio tra le varie componenti del linguaggio: da un lato una certa contemporaneità, senza scivolare nell’estrema semplificazione e nella sciatteria, lavorando sempre in direzione di una misurata ricercatezza espressiva e di quanta più esattezza possibile; dall’altro lato un’impronta netta dell’individualità di chi scrive, che rende originale il dettato poetico, autentico.

L’opera di traduzione. Come molti poeti, ti sei confrontata anche tu con l’attività di traduzione. Hai intervistato negli anni scorsi alcuni poeti argentini dando vita al progetto Italia Argentina ida y vuelta. Incontri poetici, pubblicato nell’omonimo ebook edito da Le Recherche in collaborazione con Versante ripido. Quanto ti trovi a tuo agio nel ruolo di traduttrice? Pensi anche tu, come ha scritto Enrico Terrinoni in Oltre abita il silenzio (Il Saggiatore, 2019), che tradurre voglia dire “trascrivere i silenzi del vissuto e i suoi rumori, traslare le sue voci e forme in un piano che sfugge”? Com’è nato l’interesse per la poesia argentina?

Il progetto Italia Argentina ida y vuelta. Incontri poetici nasce da un viaggio intrapreso nel 2014, un soggiorno in Argentina organizzato per presentare il mio libro Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile 1860-1960 (Ananke Edizioni), durante il quale ho avuto modo di conoscere otto poeti, donne e uomini di età e generazioni differenti, quasi tutti di origine italiana. Nonostante il tempo a disposizione non fosse moltissimo per via dei miei impegni con le presentazioni del libro in diverse località del Paese, sono riuscita a incontrarli di persona. Ho parlato a lungo con loro, e tutte le conversazioni sono state videoregistrate: i dialoghi si sono trasformati in una sorta di intervista a tutto tondo nella quale ogni poeta ha raccontato di sé, delle sue origini e del rapporto con l’Italia, dell’Argentina di ieri e di oggi, di Buenos Aires, di episodi della propria esistenza, di politica, di poesia e di letteratura, delle autrici e degli autori amati, e di molto altro ancora. Il mio interesse era comprendere come le radici italiane, nel caso ci fossero, e la cultura italiana in genere, avessero influenzato la poetica di questi autori, nei contenuti e nello stile. Al rientro in Italia ho pensato che sarebbe stato bello far conoscere queste voci, alcune delle quali annoverate tra le più importanti della poesia argentina, e soprattutto le storie che raccontavano, presentarle tentando di conservare la delicatezza e l’irripetibilità del singolo incontro, di rivelare lo spazio intimo e ricco di suggestioni che è stato quel raccontare e raccontarsi, in ascolto. La scelta del titolo allude proprio a queste due anime del progetto: da un lato il richiamo alle origini migratorie, al viaggio che decenni fa molte famiglie di italiani, incluse quelle di alcuni poeti intervistati, nonché la mia, hanno compiuto da una parte all’altra dell’oceano, e anche al mio viaggio, anzi, ai miei viaggi in Argentina, il riferimento all’andata e al ritorno che sottolinea il legame ancora fortissimo tra questi due Paesi e le loro genti; dall’altro lato l’importanza dell’incontro, che è il fulcro di questo lavoro, cioè quel trovarsi di fronte a qualcuno nell’intimità di un luogo privato – quasi tutti i poeti mi hanno ricevuta in casa loro e questa dimostrazione di gentilezza, apertura e ospitalità mi ha molto colpita – mentre racconta di sé, della propria storia che si intreccia a quella dell’Argentina e dell’Italia, e svela il percorso esistenziale e poetico che ha compiuto fino a quel momento. A ognuna e ognuno degli autori ho dedicato una breve prosa poetica, in cui ho raccontato del nostro incontro, correlata dalla sua biografia, da alcune poesie alla cui traduzione ho lavorato personalmente (avendo anche la possibilità di collaborare con i poeti stessi, molti dei quali sono a loro volta traduttori dall’italiano allo spagnolo), e dagli estratti delle interviste video suddivisi per tematiche trattate.
Detto ciò, ci tengo a sottolinearlo, questa esperienza non fa di me una traduttrice. Essere una traduttrice significa avere una precisa formazione, che io non possiedo. Nonostante le affinità tra l’italiano e lo spagnolo, lingua che adoro e che ho studiato per diversi anni, accompagnando il mio studio anche a soggiorni in Spagna e in America Latina, ho trovato molto difficile e assai laborioso tradurre queste poesie in italiano, anche perché lo spagnolo d’Argentina presenta diverse peculiarità. Di certo è stato fondamentale il dialogo imbastito con le autrici e con gli autori, che spesso mi hanno aiutata a superare dubbi e incertezze.
In linea generare credo che l’atto di tradurre un testo implichi entrare in conflitto con entrambe le lingue: per superare questo contrasto occorre conoscere in modo approfondito anche le due culture di riferimento. Bisogna negoziare costantemente tra significati e visioni della realtà spesso molto distanti tra loro, e in questa negoziazione senza tregua avere ben presente che la posta in gioco è il senso complessivo del testo, la sua aderenza al dettato originale da un lato e la sua capacità di acquisire concretezza e di calarsi nella realtà d’arrivo, dall’altro. Sarebbe auspicabile conoscere molto bene anche l’autore/ autrice che si sta traducendo per traslare al meglio la sua voce, incarnandola nella propria, e in tutto questo non tradire mai la tonalità primigenia, anche se nella lingua d’approdo si devono sperimentare per forza di cose toni e modulazioni differenti. È davvero difficile. Non so se ripeterò l’esperienza della traduzione, per quanto mi riguarda deve legarsi a una motivazione molto forte, affettivamente pregnante.

Nella prima domanda, ho accennato al tuo impegno poetico su vari fronti. Ne emerge un significativo rapporto con il mondo femminile e con la scrittura femminile. Puoi raccontarci meglio i progetti che ti vedono coinvolta? Da dove nascono? Richiamo, in proposito, due tuoi recenti lavori di curatela che hanno al loro centro le donne: l’antologia femminile, Maternità marina (Terra d’ulivi, 2020) e Confine donna, Poesie e storie di emigrazione di prossima uscita per l’editore triestino, Vita Activa Nuova. Vuoi parlarcene?
Mi piacerebbe raccontassi qualcosa anche del progetto Medicamenta, lingua di donne e altre scritture, di cui sei fondatrice e ideatrice insieme a Valeria Bianchi Mian. A quali prossime iniziative state lavorando?

Medicamenta, lingua di donne e altre scritture è un progetto che si inserisce all’interno del vasto panorama delle pratiche di “poesia terapia”: nato ormai sei anni fa dalla collaborazione tra Valeria Bianchi Mian, scrittrice, illustratrice e psicoterapeuta, e me, che ho una formazione pedagogica e da diversi anni insegno in contesti particolari: prima quello migratorio e adesso quello carcerario, si è declinato nel tempo in laboratori, gruppi di formazione, eventi, performance e pubblicazioni. Si lavora al confine tra individuale e collettivo, sui temi caldi della vita: dipendenza affettiva, violenza di genere, il difficile cammino di ricomposizione dell’identità a seguito del trauma migratorio, le crisi psicologiche che costellano le fasi della vita, dalla giovinezza alla maternità, dalla menopausa all’anzianità. L’obiettivo dei laboratori che attiviamo sotto l’egida di Medicamenta è psico-pedagogico e si articola da un lato nell’uso della scrittura creativa, in particolare autobiografica e poetica, dall’altro nella creazione di piccoli manufatti di carta, ricorrendo spesso alla tecnica dell’origami. Per quanto riguarda invece le attività più strettamente letterarie, oltre a organizzare eventi e letture tematiche, Valeria e io abbiamo pensato anche di includere una serie di pubblicazioni che affrontano questioni salienti per il femminile: Maternità marina e Confine donna rientrano dunque a buon titolo in questo grande calderone creativo che è Medicamenta.
Maternità marina è un’antologia poetica, un’opera corale, incentrata sul tema complesso del materno, che raccoglie i testi di trenta autrici italiane contemporanee, scritti a partire dalle suggestioni di una serie fotografica di ventotto scatti, con inserti grafici a ricamare le fotografie e illustrazioni a puntellare i versi, come una sorta di sottotesto che accompagna la narrazione poetica. Nasce da una mia idea, e da un primo esperimento che mi ha visto alle prese con la macchina fotografica. Adoro la fotografia e spesso in passato ho collaborato con artisti e fotografi, scrivendo poesie per dare voce ai loro scatti. Con Maternità marina è successo il contrario, ho coinvolto altre poete perché fossero loro a scrivere i testi in sintonia con le immagini.
Valeria Bianchi Mian è stata invece l’ideatrice del racconto grafico, dedicandosi alle illustrazioni e realizzando la delicata trama di inserti che riscrivono le foto di significati ulteriori. Il libro contiene anche le nostre due introduzioni come curatrici e due nostre poesie, che abbiamo volutamente lasciato a margine della narrazione, a cui invece hanno dato forma le altre autrici. A conclusione dell’opera appare la postfazione accurata dell’artista Sandra Baruzzi, che riflette sulla sintesi che linguaggio visivo e scritto producono. Insomma, è un libro composito, stratificato, multiforme, onirico, originale, conturbante e perturbante, che presenta una commistione di codici espressivi e si avventura nel territorio della maternità esplorandone anche le zone d’ombra, ponendo al centro della narrazione le paure, i limiti, la complessità, le aperture e le epifanie del femminile.
Confine donna: poesie e storie di emigrazione riprende idealmente il filo rosso dei miei studi sulla migrazione in un’ottica di genere, nel solco della storia orale che raccoglie i racconti autobiografici delle stesse protagoniste, argomento della mia tesi in storia contemporanea, poi confluita nel libro di cui parlavo sopra, Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo di emigrazione al femminile (1860-1960). Si tratta di un’antologia che sistematizza e approfondisce i contributi apparsi sulla rivista Poesia del nostro tempo, pubblicati a puntate dal 2017 al 2019 nella rubrica omonima, da me ideata e curata come sintetico contenitore di riflessioni sul tema dei confini geografici, linguistici, emozionali, a partire da una serie di interviste rivolte a poete straniere che vivono o hanno vissuto in Italia. Le domande, identiche per ognuna, sondavano le ragioni della scelta di espatriare, le eventuali difficoltà incontrate durante il viaggio, il primo impatto con la realtà d’arrivo, la questione della lingua in relazione alla scrittura poetica e quale fosse il confine, fisico o metaforico, percepito come frattura irreversibile nella propria vicenda esistenziale e migratoria. Ogni intervista era poi corredata da una selezione di poesie proposta dalle stesse autrici, per raccontare, questa volta in versi, l’esperienza del radicarsi in un nuovo paese, in bilico tra identità composite e lingue differenti. Nella trasposizione da rubrica a libro l’impianto di Confine donna ha subìto alcune variazioni: in particolare la trasformazione dell’intervista in un resoconto autobiografico, e l’aggiunta di illustrazioni firmate sempre da Valeria Bianchi Mian.
Uno dei prossimi progetti a cui stiamo lavorando con Medicamenta è un’antologia illustrata su una tematica molto attuale, che ruota intorno alla questione dell’antispecismo: mi auguro che entro la fine dell’anno veda il suo compimento.

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