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“Dei fiori resta, lana bianca, precaria sullo stelo”. Intervista a Paola Ballerini. A cura di Francesca Marica

 

Cara Paola. Cominciamo dalla tua biografia. Poetessa colta e appartata, ti sei laureata in filosofia ma hai compiuto studi anche in campo psicologico. Due libri all’attivo: “Nell’arcipelago cresce l’isola” (Raffaelli, 2009) e “dentro l’iride radici” (Coazinzola Press, 2014). Sei coautrice del volume “Varianti Urbane – mappa poetica di Firenze e dintorni” (ed. Damocle, 2011), che ha ottenuto il marchio microeditoria di qualità. Tuoi testi sono apparsi su diverse riviste e alcuni hanno ottenuto anche traduzioni in altre lingue. Nel 2017 hai vinto il primo premio Renato Giorgi – sezione silloge inedita, e hai preso parte alle antologie “Poeti per Genova – Biblioteca di Rebstein” (LXXIV, 2018) e “Matrilineare” (La Vita Felice, 2018). Ti chiedo anzitutto di raccontarci quando ti sei avvicinata alla scrittura poetica.

Ho sempre amato molto la poesia, e la frequento assiduamente fino dall’adolescenza. Però ho iniziato a scrivere versi molto tardi e direi mio malgrado. Era l’estate del 2006 e stavo attraversando un periodo confuso e difficile, caratterizzato da una forte insonnia. Nella notte ricevevo parole, ritmi, mi accadeva il bisogno impellente di scrivere, quasi sotto dettatura, quindi in un modo inquietante,  come se un tappo fosse saltato da qualche parte nella mia mente e senza rendermi conto esattamente di quello che stavo facendo. Era un’urgenza che non potevo non assecondare. Dopo alcuni mesi ho iniziato a realizzare che mi muovevo nello spazio bianco della pagina, seguendo il bisogno di andare a capo, mozziconi di versi, balbettii. L’esperienza è stata perturbante, febbrile, uno strappo improvviso, qualcosa che è accaduto senza che lo volessi e che mi ha chiamata in causa in prima persona.
Poi la lingua nel suo stato magmatico è venuta più in superficie. Ora la mia esperienza della scrittura poetica è cambiata. Comunque è una sfida contro l’opacità del quotidiano, una sfida che però non nasce da un’azione, ma da una postura ricettiva, da un ascolto capillare dei suoni del mondo. Facendo un passo indietro, facendo silenzio, faccio posto a una lingua che mi visita quando vuole lei, che mi attraversa. Per me l’esperienza della scrittura poetica è un’esperienza di irruzione della lingua, e poi c’è la progressiva e faticosa messa a fuoco di qualcosa che appare e scompare, partendo da una posizione di ignoranza radicale. Dalla prima eruzione verbale della lava poi il processo che si sedimenta sulla pagina richiede spesso un lungo assestamento. Un lavoro di pulizia e sottrazione che in genere necessita di molto tempo, per consentire la giusta prospettiva sul testo.
Il modo in cui scrivo in versi è simile a quello usato per anni nel comporre collages. Tenevo un’enorme scatola piena di ritagli, di immagini, fotografie ecc. Poi in certi momenti particolari questa attività si imponeva: disponevo alcune immagini sul foglio, lasciandomi guidare ad accostare una cosa insieme all’altra e piano piano il collage nel suo insieme prendeva forma, come se si facesse dal solo. E a un certo punto diventava chiaro che non potevo più aggiungere nulla. E che dovevo incollare le immagini al loro posto. E che il bianco della pagina era il respiro, il ritmo di quel collage, lo spazio dove le figure si stagliavano.
Quando ho iniziato a scrivere, a guidarmi era però un aspetto sonoro della lingua che mi si presentava come un ritmo prima del significato, mentre adesso il processo creativo si muove più spesso dalla visione. Comunque un assemblaggio di parole per associazione di senso e suono, che arrivano a formare un’immagine centrale intorno a cui si dipana il testo.

La tua è una scrittura di chiaroscuri dove si percepisce, e in maniera densa e viva, una profonda intelligenza del cuore. Sappiamo che lo sguardo filosofico è capace di attraversare la poesia e la poesia – interrogando la parola nel suo ruolo storico e temporale – è capace di fornire alla filosofia nuovi stimoli e nuovi punti di vista. Esiste tra parola filosofica e parola poetica un ruolo di reciproca fiducia e conoscenza. Ti chiedo, se e in che modo la tua parola poetica è stata influenzata dai tuoi studi filosofici? Come si è manifestata quest’influenza?

Mi è difficile rispondere. Immagino che una influenza ci sia, ma in che modo si manifesti non mi è chiaro. In entrambi i casi si tratta di un’appassionante e inesausta ricerca, un’ esplorazione dell’esperienza umana in profondità, di un livello soggiacente rispetto all’ordinario. “La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana”, come dice Kant.
Sono sempre stata in compagnia delle domande. Ecco questa attitudine all’apertura è una pratica che ho cominciato a esercitare molto presto. Non fermarsi alle apparenze. Non smettere di interrogarsi. Non arrivare a conclusioni affrettate. Non chiudere con interpretazioni sbrigative. Ma sostare a lungo presso la domanda. A volte rimanere solo con la domanda, senza risposte. Cioè praticare il non sapere, il consegnarsi all’esperienza senza giudizio.
Scrive Edmond Jabès “Ogni domanda si lega al divenire. Ieri interroga domani, come domani interroga ieri nel nome del futuro sempre aperto.
Il famoso ‘chi sono?’ trova la sua giustificazione in un’interrogazione universale di cui non siamo che l’eco persistente.”
Sia la poesia che la filosofia sono processi conoscitivi, ma la pratica del pensiero è diversa. In senso proprio non si possono assimilare. La filosofia condensa il pensiero e la poesia invece lo disloca, si avvicina a quello che non si lascia dire, lo accosta nello spazio vuoto, bianco, e ci riporta vicino alla radice preconcettuale dell’essere.
Per quanto riguarda il linguaggio poi, la mia interrogazione è continua. Rifletto da molti anni sulle parole, sia rispetto alla loro dimensione etica che a quella linguistica ed estetica.
Concordo con James Hillman, è un “miracolo trovare le parole giuste, le parole che comunicano l’anima in modo accurato, dove si intrecciano pensiero, immagine e sentimento”.

La contemplazione e la rivelazione, il mistero della relazione armoniosa tra mano, occhio e cuore. Quanto la contemplazione e la rivelazione appartengono all’intimità della tua parola?

John Berger mette a fuoco il punto decisivo:
“Le poesie sono più vicine alle preghiere che ai racconti, ma nella poesia, dietro al linguaggio della preghiera, non c’è nessuno. È il linguaggio in sé che deve ascoltare e riconoscere. Per il poeta religioso, la Parola è il primo attributo di Dio. In tutta la poesia le parole, prima di essere strumenti di comunicazione, sono una presenza.”
La lingua poetica ha una funzione maieutica, convoca le parole come persone.
È metamorfica, è la lingua della trasformazione, lingua aperta al mutamento, ed è questo aspetto che le consente di risuonare più in là del nostro orizzonte, fino alle sue estreme conseguenze, con il suo intero carico di senso e suono. Chi scrive, e anche chi legge, ha il compito essenziale di ‘mantenere vivo lo stupore dinanzi alle parole’, citando Marica Bodrozic.
La poesia mi pare provenga da una percezione intensificata che permette di intravedere oltre l’ordito delle cose, di toccarle come per la prima volta.  La scrittura poetica non ha a che fare tanto con la costruzione, la comunicazione, la volontà di esprimersi, richiede invece un passo indietro per aprirsi all’esperienza di essere semplicemente vivi.
Come dice Tomas Tranströmer: ‘le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare’.
Questa esperienza esige umiltà,  nel senso di un arretramento dell’io, una postura silenziosa e pulita, che prende le mosse da uno spazio di ricettività analogo a quello della meditazione, dove non si fa nulla, ma si sta con i respiri ad osservare quello che accade, momento dopo momento, svegli, presenti. Direi che è proprio dalla dimensione di un ascolto radicale, dalla disposizione a ricevere le parole, che nasce la mia poesia. Per esempio tutta la quarta sezione dell’Iride: La lingua degli ospiti è una riflessione sulla scrittura e sul linguaggio, la poesia che ospita la lingua degli altri, la lingua delle cose, i suoni del mondo, le forze che legano gli elementi,  ‘le voci tiepide di tutto’.
Scrivo per sottrazione, cercando di rendere il testo limpido, spoglio di tutto quello che non è necessario, e nello stesso tempo aperto. La povertà in poesia è una forza. Siamo sottoposti a un eccesso di stimoli, di notizie, distrazioni molteplici, siamo invasi da oggetti inutili. Viviamo di opacità, e siamo spesso assopiti e assuefatti. Perciò è fondamentale mettere molta cura nella selezione delle parole. Solo nella dimensione silenziosa infatti la parola può emergere, venendoci incontro, facendosi spazio per raggiungere misteriosamente la pagina.
Condivido quello che scrive Philippe Jaccottet: “L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro diventano trasparenti di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa.”
Da qualche parte ho letto: “Non cercare la tua identità. Ciò che conta è sparire per permettere alla creatività di accadere”. Ecco qui per me c’è qualcosa di vero, la biografia e l’identificazione possono essere di intralcio. Nella mia esperienza percepisco le parole come se le accogliessi, qualcosa che mi attraversa e mi oltrepassa. In effetti c’è una dimensione di servizio nella scrittura poetica, ci si dispone ad aprire uno spazio, non sapendo precisamente dove le parole ci porteranno. Ovviamente si è interamente responsabili dei propri testi, ma la posizione spaziosa del non sapere è ciò che consente di lasciarci davvero guidare dalla lingua (una sezione del mio primo libro, alludendo a questa esperienza, si chiama ‘passeggiando in incognito’.

“Nell’arcipelago cresce l’isola” ha vinto il premio ClanDestino per l’opera prima nel 2009. Nella nota introduttiva al libro Elisa Biagini ha cercato di individuare le coordinate della tua scrittura facendo espresso riferimento alla presenza di un tempo sospeso, all’importanza del freddo e dell’inverno, all’onnipresenza della memoria e alla centralità del silenzio come momento di perfezionamento della conoscenza. In quali e quanti di questi elementi ti riconosci? Mi piacerebbe approfondissi il tema della memoria e quello del silenzio.

Mnemosyne è la madre di tutte le muse. E’ la memoria che ci permette di viaggiare nel tempo, che può essere artefice di nuovi significati e nuove visioni, anche nel presente.
La scrittura poetica è un processo che consente di rigenerare il materiale mnemonico, dando vita a inediti orizzonti di senso. La poesia muove dall’esperienza vissuta, ma non è solo una riformulazione di quella esperienza, come ho già accennato sopra. C’è un trascendimento, un non sapere che porta il testo in una direzione sconosciuta anche per la persona che lo scrive. È necessaria questa disposizione a lasciarsi guidare dalla lingua e a essere disposti a andare dove non sappiamo, con tutti i sensi aperti, in una direzione altra. Qualcosa che custodisce rivela e trattiene la luce incandescente dell’esperienza stessa. Come dice Berger, il linguaggio poetico riconosce e dà rifugio a ciò che accade: “Il poeta pone il linguaggio oltre la portata del tempo: o, più precisamente, il poeta si accosta al linguaggio come se fosse un luogo, un punto di incontro, dove il tempo non ha finalità, dove il tempo stesso è incluso e compreso.”
Simone Weil sottolinea che “i versi non fanno centro se non creano per il lettore un tempo nuovo. Come accade per la musica una poesia esce dal silenzio, ritorna al silenzio.”
Infatti le parole si stagliano nel bianco della pagina, l’andare a capo è come il vento che passa tra i versi e fa vibrare insieme suono e significato.
Tranströmer sostiene che “ogni poesia è una traduzione da una lingua invisibile, cioè è manifestazione di un’altra poesia, scritta in una lingua che sta dietro le lingue comuni. Allora anche la versione originale è una traduzione, un ennesimo tentativo della poesia di prendere forma.” Questo ci riporta al rapporto indissolubile fra parola e silenzio che si attua nel verso, quell’andare a capo che lascia le parole nella sospensione della pausa, nel bianco della pagina. Parola e silenzio operano congiuntamente nella poesia. Anche la pagina bianca è il silenzio da cui partire per pronunciare la parola, il silenzio da cui la parola affiora e a cui torna.
Come scrive con incisività Etty Hillesum “Troppe parole mi danno fastidio. Vorrei scrivere parole che siano organicamente inserite in un gran silenzio, e non parole che esistono soltanto per coprirlo e disperderlo: dovrebbero accentuarlo, piuttosto.[…] e la cosa più importante sarà stabilire il giusto rapporto tra le parole e il silenzio – il silenzio in cui succedono più cose che in tutte le parole affastellate insieme. […] Non sarà un silenzio vago e inafferrabile, ma avrà i suoi contorni i suoi angoli la sua forma: e dunque le parole dovranno servire soltanto a dare al silenzio la sua forma e i suoi contorni, e ciascuna di loro sarà come una piccola pietra miliare, o come un piccolo rilievo, lungo strade piane e senza fine o ai margini di vaste pianure.”
L’inverno, con la sua sospensione e attesa dell’epifania, è importante nella mia poesia. L’inverno con la sua luce astratta, la neve come tempo di incubazione, sono declinazioni del silenzio che possono alimentare la comprensione, la discesa in profondità. È la stagione del freddo, del gelo, una stagione in bianco, grigio e nero in cui il terreno si assesta. Un periodo di preparazione, e dissodamento. Il paesaggio è brullo, il tempo è rallentato. C’è un intimo richiamo al ritiro, al raccoglimento, la vita allora per conservarsi diventa sotterranea. L’inverno ha anche una vera e propria dimensione di spoliazione, questo paesaggio interiore ed esteriore è cruciale ancora in molti testi del prossimo libro.

Guido Ceronetti nel Qohélet da lui curato (Adelphi, 2003) ha scritto che “Principio e fine della voce è il grido”. E Lacan nell’approfondire il tema del desiderio dell’altro ha osservato che “Il linguaggio prima di significare qualcosa significa, per qualcuno”. Come definiresti, tu il grido? Come definiresti tu, il desiderio?

Il grido è un richiamo, un avvertimento, una manifestazione di esistenza della creatura prima delle parole. Il grido, il suono, è un segnale e  precede l’articolazione in una forma. Il grido è anche quello degli animali, è una elementare espressione del sangue. E ci richiama al tu, al voi, all’altro, al gruppo per cui emettere il segnale sonoro. Possiede un’energia propria, come scrive Virginia Woolf:
“Mi serve un po’ della lingua che usano gli amanti. Non ho bisogno di parole. Di niente di preciso. Ho bisogno di un ululato, di un grido.”
Il desiderio, proprio partendo dall’etimologia de–sidera, assenza di stelle, ha a che fare con una solitudine, con una mancanza siderale, allude alla distanza fra soggetto e oggetto. È un elemento costituivo della natura umana e presenta una dimensione elusiva. Il desiderio ci spinge fuori di noi. Il desiderio ci spiazza e ci trasforma. Ci rapisce e ci scaglia dove non ci saremmo recati, verso il lato oscuro della vita. Disorienta e scompagina. È un fuoco che ci esilia da noi stessi, e ha anche fare con la dimensione feconda dell’attesa. Scrive Leonardo da Vinci: ‘muovesi l’amante per la cos’amata’. Il desiderio è desiderio di Altro, e l’altro è irriducibile, tuttavia solo l’assolutamente estraneo può istruirci, come dice Lévinas.
“Troppi non vogliono sapere a che cosa anelano, perché ciò pare loro impossibile o troppo doloroso. Il desiderio è però la via della vita. Se non ammetti di fronte a te stesso il tuo desiderio, allora non seguirai te stesso ma strade estranee che altri hanno tracciato per te.” (Jung – dal Libro Rosso). Il desiderio ha allora a che fare con la vocazione, con la chiamata.
Però bisogna assumersi la responsabilità dell’esperienza, lasciarsi toccare, aprirsi allo stupore, osservare con curiosità e interesse, piuttosto che reagire e difendersi. Si tratta di esporsi alla vita in un certo senso consegnandosi, allora l’esperienza può continuare a muoversi nella scrittura, ad aprirsi.
Sostiene Annie Ernaux che ‘scrivere è dare forma a un desiderio’. Nella scrittura infatti c’è una distanza rispetto alla parola orale, così come c’è una distanza intrinseca nel desiderio. Sulla pagina si muove un’alterità che ci consente di percepire pienamente la lingua e il suo potere. Qui si abbandonano gli ormeggi e si salpa non si sa verso dove. È proprio nello spazio del desiderio, in quel vuoto, che prende corpo la voce.

Parlaci dei tuoi prossimi progetti. Stai lavorando a nuovi libri? Cosa ci dobbiamo aspettare dalla prossima Paola Ballerini?

La futura raccolta è un testo denso che si è sedimentato durante molti anni, con vicende editoriali complicate. Spero che presto possa vedere la luce. Testimonia l’attraversamento di un tempo accidentato di lutti e malattia nel quale si aprono brecce,  come se gli ostacoli rappresentassero a tratti anche porte di accesso ad altri stati di coscienza, varchi – se pur dolorosi – ad altri livelli dell’esistenza, ad altri strati di verità. Come se la vita potesse rivelare parti fondamentali di sé solo attraverso l’esperienza della caduta, della menomazione, della sottrazione appunto. Si tratta di una stagione del dissesto, dispari, in cui l’esistenza  mostra il rovescio della trama, l’omissione per eccellenza, la luce che cade. Il libro si interroga anche sulla parola poetica e sul silenzio, sui limiti della lingua, la sua fragilità di fronte alla morte, le sue risorse e il suo mistero.

2 thoughts on ““Dei fiori resta, lana bianca, precaria sullo stelo”. Intervista a Paola Ballerini. A cura di Francesca Marica

  1. Cara Paola, questa intervista mi ha toccato il cuore, le tue parole hanno risuonato un po’confusamente dentro di me ma le ho sentite come un tesoro prezioso da riesplorare. Sento che continuiamo a camminare insieme per vie apparentemente diverse ma verso lo stesso obbiettivo: integrare e celebrare la vita nell’incontro spontaneo con cosa ci regala da vivere. Onorato di essere il tuo vecchio fratellino❤️

  2. Riconosco nelle riflessioni di Paola diversi aspetti del fare poetico che ho conosciuto anch’io, ma mai sviluppato in un pensiero profondamente esplorato come il suo. E’ una lettura ricchissima di idee importanti. Grazie, Paola

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