Trasfusioni

Odile Cornuz, Il tempo di chi?, a cura di Lorenzo Mari

   

Il tempo di chi? Il tempo perché? Per chi? Per sé? Sé però dov’è, scomparso sotto le incombenze, sparpagliato nei messaggi e nei rendez-vous? Dove sei tu, veramente? Con i piedi infilati in un paio di calze? In questo spazio che è il tuo – in tutti gli spazi da te creati? Negli spazi che recano l’impronta del tuo corpo e anche del tuo odore? Tu sei dentro ai tuoi vestiti. Sei nei tuoi capelli. Sei nel modo in cui ti muovi – alcune persone ti riconoscono di schiena, in lontananza, sul marciapiede dall’altra parte della strada. Sei nella risata che provochi, nel doppio starnuto che ti distingue. Sei nei tuoi gesti, soprattutto i gesti che non finisci, quelli che trattieni. Sei forse nel trattenimento più che in qualsiasi altro luogo. Ci sei senza, allo stesso tempo, esserci. Sei all’interno di una forma di negazione. Sei con le persone ma a mille chilometri dalle loro preoccupazioni. Le ascolti e le vedi. Il tuo corpo è lì ma la tua testa è da tutt’altra parte. Loro pensano che tu sia certamente in grado di esserci e ascoltare. Sei trafitta dai pensieri e dai ricordi. Hai il tempo, sì, come ce l’ha un setaccio. Sei connessa a tutte le epoche anteriori e future che hai attraversato e che conquisterai.

Tu diventi tu. Diventi qualcun altro. Dipende dai giorni. Attraversi le nebbie. Non importa. Vedi poco o punto. Non importa. Allunghi un braccio fuori dal letto ma fa troppo freddo. Ieri sera leggevi racconti della Kolyma. Stamattina il tuo riscaldamento è in panne. Potere della letteratura! Continui a leggere, sotto la trapunta. La mattinata passa. Null’altro da fare: restare a letto e lasciarsi trasportare nella neve e nelle privazioni, nel sudore, nella costruzione di muri, nella corsa ai materiali, alle sigarette, all’ultima cucchiaiata di zuppa, quella più densa, sul fondo. Finisci la lettura di quel racconto di sopravvivenza. Forse ti fai anche un bagno – e il riscaldamento ritorna. Tu fermi il tempo. Tu non hai più bisogno di affrettarti.

***

Le temps de quoi? Le temps pour quoi? Pour qui? Pour soi? Mais où est soi, disparu sous les tâches, éparpillé dans les messages et les rendez-vous? Où es-tu vraiment? Les pieds glissés dans une paire de chaussettes? Dans cet espace qui est le tien – dans tous les espaces par toi créés? Dans les espaces qui portent l’empreinte de ton corps mais aussi son odeur? Tu es dans tes habits. Tu es dans tes cheveux. Tu es dans la manière de te mouvoir – certaines personnes te reconnaissent de dos, de loin, sur le trottoir en face. Tu es dans le rire qui tu pousses, le double éternuement qui te caractérise. Tu es dans tes gestes, surtout les gestes que tu ne finis pas, ceux que tu retiens. Tu es dans la retenue peut-être plus que partout ailleurs. Tu es là sans y être, aussi. Tu es dans une forme de négation. Tu es avec les gens mais à mille kilomètres de leurs préoccupations. Tu les écoutes et les vois. Ton corps est là mais ta tête complétement ailleurs. Ils pensent que tu sais bien être là et écouter. Tu es transpercée de pensées et de souvenirs. Tu as le temps, oui, comme une passoire a le temps. Tu es connectée à toutes les époques antérieures et futures que tu as traversées et que tu conquerras.

Tu deviens toi. Tu deviens quelqu’un d’autre. Ça dépend des jours. Tu traverses les brouillards. Ça ne fait rien. Tu n’y vois goutte. Ça ne fait rien. Tu tends un bras hors du lit mais il fait trop froid. Hier soir tu lisais des récits de la Kolyma. Ce matin ton chauffage est en panne. Pouvoir de la littérature ! Tu continues à lire, sous la couette. La matinée passe. Rien d’autre à faire : rester au lit et se transporter dans la neige et les privations, la sueur, la construction de murs, la ruse pour les matériaux, les cigarettes, la dernière raclée de soupe plus épaisse au fond. Tu finis la lecture de ce récit de survivance. Tu prends un bain, peut-être – et le chauffage revient. Tu détiens le temps. Tu n’as plus besoin de te presser.

 


Se i tempi che attraversiamo sembrano alternativamente fermarsi e rinchiudersi su sé stessi (per meglio dire, su noi stessi) oppure accelerare verso esplosioni centrifughe e inarrestabili, Odile Cornuz, autrice svizzera classe 1979, ci proponeva, già qualche anno fa, di rallentare. La sua rallentata, tuttavia, non segue i troppo facili e probabilmente inutili dettami della slow life (che costituiscono un altro modo di irreggimentare il nostro tempo, complementare al meccanismo euforizzante-depressivo della temporalità neoliberale), ma riprende e amplifica una più famosa “rallentata”, quella di Henri Michaux nella poesia La ralentie. Secondo un récit che mima la possibilità di una parafrasi e, a tratti, di un saggio sulla poesia di Michaux, senza mimarne per questo e in alcun modo la forma, Ma ralentie (Editions D’Autre Part, 2018, premio Auguste Bachelin 2018) è un’appropriazione “di genere “ – pun intended – di uno dei testi più affascinanti del Novecento francese e internazionale, già analizzato con dovizia di dettagli da Gilberto Isella qui, con parole che risuonano anche per la prosa/poesia/“saggio” di Cornuz: «Per enunciarne lo svelamento occorre che qualcuno, il poeta, rinunci ad accedere agli enti attraverso maschere pronominali precostituite. L’“accelerante” sapere dell’io-persona-presenza cede al “rallentante” senza nome, all’anonimo “si” livellatore. Nuvola, velo che protegge dai rumori del mondo, questo “si” assurge a una sorta di sublime anonimia in Henri Michaux, e non va confuso con l’impersonale “si” che Heidegger riferiva all’Esserci quotidiano e inautentico. Il rallentamento, nella prosa poetica La rallentata (in Lontano interiore, 1938), attua un’epochè nei confronti dei pronomi personali-deittici, i poli che fungono da collegamento con il mondo-spazio e il mondo-tempo». Buona epochè

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