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“L’universo è un luogo generalmente molto freddo, punteggiato da stelle, che sono come delle isole di calore fortissimo”. Intervista a Elisa Davoglio. A cura di Francesca Marica.

 

Elisa, cara Elisa. Iniziamo da una tua breve presentazione. Poetessa, scrittrice, organizzatrice di manifestazioni culturali e curatrice presso gallerie d’arte contemporanea. Cinque libri di poesia all’attivo: “L’orlo di Golois” (La camera verde, 2010), “Detour” (La camera verde, 2012), “La lunga impazienza” (Arcipelago, 2013), “Taco Bell” (Aragno, 2018) e “Nella città più fredda” (Tic Edizioni, 2021). Soffermiamoci sul tuo ultimo libro. Un libro anche politico. Ce lo presenti? Quali riflessioni sull’oggi si trascina dietro questo tuo nuovo lavoro?

Sicuramente questo libro si porta dietro profonde riflessioni sulla realtà contemporanea.
Pur se  non collocato in un tempo storico definito, racconta dell’oggi e del futuro.
Questo a partire dall’incomunicabilità, dalla perdita di quel calore definibile come “umano” e oggi traslato in altre forme, ma temo saccheggiato.

“Nella città più fredda” non è una guida di viaggio. 
In questo libro non vengono presentati luoghi, attività culturali, situazioni di interesse storico. In questo libro incontriamo uomini, essere umani.
Incontriamo un’umanità azzoppata: suicidi, dementi, malati di mente, detenuti in attesa della morte. Non sappiamo cosa sia successo agli altri uomini che sono stati portati via prima dell’arrivo del freddo.
No, non è una guida di viaggio questo libro. Forse si avvicina di più alla definizione che dai di “guida turistica”. “In una guida turistica troveremo gli aspetti della tragedia”. Quale tragedia vuole raccontare questo canto di (apparentemente) sopravvissuti?

La tragedia aleggia nella presa della coscienza; solo i folli, i malati, gli aspiranti suicidi si avvicinano alla verità, perdendo ogni velleità di luogo morbido, caldo, sicuro.
La “Guida turistica” è la mia opzione grottesca per rendere comunque visibile la città che affonda e muore, incomprensibile dall’esterno ma oggetto curioso che trattiene la fallibilità dell’uomo.

Il freddo.
La città più fredda, Tkuskya (e i relativi anagrammi che danno il titolo a sei delle sette sezioni complessive del libro), è in realtà una città nata calda.
“La città è nata calda, morbida… (…) la città appena nata, calda di fermento, si accende e cresce nella sua misura ebbra di febbre (…) Nella città calda non esistono ancora i rumori della protesta, tutti sono ancora convinti di poter un giorno ricomporre la coesione, rovesciare le ingiustizie (…)”.
La città più fredda sembrerebbe essere una città che ha abbandonato il suo calore iniziale, che lo ha perduto. Con il calore termico, la città ha abbandonato e/o perso anche le sue istanze di giustizia civile e sociale, la sua democraticità, la sua stessa identità. Che cosa ha determinato questo rovesciamento di prospettiva, questo cambio di paradigma?

Semplicemente, uno stordimento che ho definito con il “il freddo”, che può avere anche tante altre determinazioni. Il freddo come latenza, come immobilismo, come elemento surreale che ingoia ogni possibile certezza. L’identità frammentata deve essere ricostruita, ma appunto senza uomini “standard”: la città sarà popolata solo di figure estreme, quelle che nella nostra società si trovano ai margini.

Secondo un sentire comune e radicato, l’esperienza quotidiana del freddo sarebbe in grado di insegnare cosa sia l’attenzione, cosa sia la gentilezza, cosa sia la cooperazione.
Dalla tradizione dei grandi romanzi russi fino ad oggi, è radicata in letteratura la convinzione che non ci sia niente di più normativo e di più etico del paesaggio invernale, che proprio per le sue condizioni estreme mette gli uomini davanti a scelte e adattamenti continui. Cosa ci vuole insegnare il freddo della città nata calda e morbida? “Curiosamente il freddo non degrada ma protegge”, è uno dei passaggi che mi sono annotata. Ma chi e che cosa protegge? E a quale prezzo?

Protegge a grande prezzo.
Arrivare a concepire il freddo e ad accettare di sentirlo, significa scavare nel buio e perdere il calore di un ventre originario ma illusorio.
La tangibilità del freddo crea dolorose verità, permette di scavare, vedere allungarsi i propri sogni in una visione quasi metafisica; curiosamente, protegge il corpo dopo la morte, rallenta la sua degradazione dopo averne illuminato i pensieri più di qualsiasi tepore.

Nella quarta sezione del libro, Kauktys, troviamo una serie di appunti per una storia di amore. Gli scenari e le atmosfere orwelliane si fanno molto presenti. Julia e Winston vestono qui i panni di Artyk e Markha, un uomo e una donna o forse due donne o due uomini, non ci è dato sapere. Quello che sappiamo è che nella città più fredda, progressivamente abbandonata (…) dove residuano solo impronte, l’amore fa pensare a una serie di follie, “come quella di ipotizzare una reale via di fuga nel progressivo emergere del freddo”. L’amore come forza eversiva? Come idea di purezza in un mondo radicalmente e irreversibilmente votato alla corruzione e alla desolazione?

Sì, l’amore come forza eversiva che può cercare di sovvertire l’andamento coerente e implacabile del freddo, che non limita questo sentimento, anche se arriverà la morte.
L’ipotesi della fuga è già vita pregnante, che se ci fai caso, non rimpiange il calore originario della città, ma cerca appunto la “fuga”: probabilmente un luogo altro, da ricostruire.

I rapporti tra il tuo ultimo libro e quelli precedenti.
Esistono linee comuni, passaggi di testimone? Penso soprattutto a “Taco Bell” dove lo scenario era quello di un mondo eracliteo, dominato da una guerra incessante, come si legge nella prefazione.

La lotta, o più benignamente confronto, ha sempre fatto parte dalla mia scrittura che può essere definita come un concentrato di ossimori.
È presente nelle varie sezioni di Taco Bell, anche se in forma più dialettica e meno assertiva. Parlando di guerra incessante, credo che l’esempio più evidente sia Silly Simphony, dove catturo i fotogrammi del cartone di Walt Disney per raccontare la lotta di scheletri, piccoli animali minacciati da creature mostruose.

Vorrei raccontassi qualcosa anche sul tuo romanzo “Onore ai diffidati” (Mondadori, 2008). Lì ad essere indagato era il mondo degli ultras. Ancora una volta, una comunità dentro la comunità. Un sottoinsieme umano con proprie regole e propri codici di linguaggio e di condotta. Da dove era nata quell’esperienza?

Il mio desiderio era quello di approfondire le lotte politiche degli anni 70, che hanno coinvolto molti giovanissimi.
Morire per appendere uno striscione non era così raro. Molte curve calcistiche si sono politicizzate mentre si è ammorbidito il confronto politico tra i giovani.
Lungi dall’esaltare un passato tempo di violenza, ho cercato di capire se e e come parte di quello spirito di appartenenza sia finito negli stadi. La risposta è affermativa e il fenomeno secondo me va approfondito ulteriormente senza limitarsi a parlare di violenza tout court.
Vi è una radice per tutto, da considerare e valutare.

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