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Intervista a Davide Valecchi: poesia, musica, fantascienza. Un altrove di ritmo e allitterazioni. A cura di Francesca Marica

  

Caro Davide, iniziamo da una tua breve presentazione. Poeta, scrittore, traduttore, musicista, polistrumentista e dal 2003 anche chitarrista/compositore del gruppo gothic rock Video Diva. Con lo pseudonimo di aal, ovvero almost automatic landscape dal 2001 realizzi progetti di musica elettronica sperimentale, con influenze drone, industrial, glitch ed ambient. Nel 2013 fondi con il musicista vocalist Luigi Maria Mennella il progetto H2R, un’entità elettronica che si muove in territori ambient, industrial, experimental, krautrock, new wave e jazztronica. Nel 2010 hai collaborato con lo scrittore Paolo Frusca alla realizzazione del romanzo fantascientifico L’archivista (Finalista al Premio Urania Mondadori, 2010). Al momento sono tre le pubblicazioni poetiche all’attivo: Magari in un’ora del pomeriggio (Fara, 2011), Nei resti del fuoco (Arcipelago Itaca, 2017) e il recentissimo La strada del nutrimento, Poesie 2016/2020 (Fara, 2021). Due tuoi racconti sono apparsi nell’antologia Brevi che ti passa (Campi Magnetici Editore, 2018). Al 2018 risalgono invece i tuoi lavori di traduzione dall’inglese per l’editore Newton Compton (quattro romanzi e un saggio storico). Un bel quadretto variegato non c’è che dire. Dimentico qualcosa? Come convivono queste tue molte anime artistiche? Vuoi raccontarci qualcosa di te? Come e quando ti sei avvicinato alla scrittura poetica?

Ho sempre pensato che tutte queste “anime artistiche” siano in realtà un’anima sola, perché in tutto quello che faccio cerco di inseguire sempre una mia personale visione che sostanzia sia ciò che scrivo che la musica che suono. Diciamo che sin dall’adolescenza ho inseguito alcuni sogni: pubblicare libri, suonare in un gruppo, pubblicare dischi, tradurre dall’inglese. Sono più o meno tutti sogni realizzati e non smetterò mai di essere colmo di gratitudine per questo.
Ho ereditato la passione per la musica dal nonno materno, musicista dilettante ma competente (suonava la tromba e il mandolino) e la passione per le lettere da mia madre, professoressa di francese nei licei. Fin da bambino ho sempre vissuto in un ambiente in cui la cultura e l’arte avevano decisamente un posto speciale e ho sentito fin da subito una sorta di chiamata verso quel mondo, sempre incoraggiato e assecondato dalla famiglia, per cui all’età di dieci anni invece di iscrivermi alla scuola di calcio (come facevano quasi tutti i miei coetanei), i miei genitori mi iscrissero a un corso di pianoforte. Sempre verso quell’età cominciarono i primi esperimenti con la scrittura, un medium che mi pareva congeniale alla definizione di una mia identità personale, un’arte “nobile” che avrebbe aggiunto valore alla mia esistenza. Ma dopo alcune poesiole e addirittura un “romanzo” di fantascienza vergato su un intero quaderno scolastico a quadretti, ho atteso però fino ai diciannove anni prima di scrivere qualcosa di vagamente decente. Questo perché l’ispirazione primeva era solo un impeto imitativo piuttosto confuso, mentre con gli anni del liceo (scientifico), grazie anche a una professoressa di lettere eccezionale, iniziai ad amare sul serio la letteratura e la poesia in particolare. La amavo di un amore a volte disperato ed era per me (insieme alla musica) l’ancora di salvezza in un periodo piuttosto infelice della vita, iniziato con la morte di mia madre proprio quando avevo quattordici anni e proseguito con vari turbini emotivi fino ai vent’anni e oltre. Nel 1993 un’amica mi regalò un quaderno rilegato da lei con le pagine in carta gialla da macellaio e quell’estate, invece di studiare per l’esame di stato, mi misi a riempirlo di poesie. Mi sembrò che quel quaderno suggellasse una sorta di patto tra me e la scrittura poetica e che rappresentasse il simbolo di un inizio. In quel periodo esisteva per me una sola divinità: Eugenio Montale.
Dal 1991 suonavo la chitarra elettrica in una band di ragazzi del mio paese e dopo poco tempo ne divenni il compositore principale, testi compresi. Quindi avevo già scritto qualcosa, ma i testi per le canzoni non sono poesia e l’arrivo di quel quaderno rappresentò per me il vero inizio. Intuivo in modo piuttosto istintivo ma assolutamente certo che scrivere poesia significa mettere in comunicazione mondi e piani di esistenza diversi. E fare musica è esattamente la stessa cosa. Mentre mi incamminavo verso una consapevolezza meno acerba posso dire che c’erano e ci sono domande che non hanno risposte univoche. C’era e c’è un bisogno dell’oltre, della meraviglia, dell’epifania, di “altre strade”, di “altri tempi”, di “altri mondi” e sì, di sogni. La realtà contingente mi andava stretta e avevo bisogno di cercare un altrove dove riconoscermi e questo altrove lo avevo identificato nella letteratura (non solo poesia, sono da sempre un amante della fantascienza e un vorace lettore di narrativa) e nella musica. Poi mi iscrissi a Lettere e con alterne fortune riuscii a portare a casa una laurea triennale (con una tesi su Maria Luisa Spaziani). E ho continuato a scrivere su quaderni e blocchi per anni, quasi venti, prima che una mia poesia vedesse la luce su carta. Non ci avevo neanche provato a pubblicare. Ero abbonato alla rivista Poesia di Crocetti Editore ma mi consideravo esterno a quel mondo, che ammiravo da lontano. Poi, verso il 2009, se non ricordo male, iniziai a frequentare sul web un gruppo di discussione sulla piattaforma anobii, dedicato alla poesia. E fu lì che iniziai a entrare in contatto con una comunità di appassionati e aspiranti scrittori, alcuni piuttosto dotati, che condividevano le proprie poesie per commentarle insieme. E fu qui che iniziai ad avere i primi attestati di stima per le cose che scrivevo (alcuni davvero entusiastici) e che iniziai a maturare la convinzione che forse avrei potuto anche provarci, a pubblicare. Tra il 2010 e il 2011 raccolsi tutto o quasi ciò che avevo scritto in versi e ne tirai fuori una sorta di “best of” di una quarantina di testi che intitolai “Magari in un’ora del pomeriggio” e mi misi in cerca di un editore. Compilai una lista con decine di possibili case editrici “papabili” e allo stesso tempo mi documentai su concorsi il cui premio consistesse nella pubblicazione ma non solo.
Il primo concorso poetico in assoluto, a cui partecipai, fu un contest in cui veniva chiesto di inviare una video-poesia a tema libero, organizzato dal Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna nella primavera del 2011. Inviai un video (questo video https://youtu.be/qPkBo4K0zzY) e mi presentai alla serata di premiazione, in un teatro di Bologna, senza sapere l’esito del concorso, che sarebbe stato comunicato durante la serata. E quel concorso lo vinsi. Il premio consisteva soltanto in un attestato e nella pubblicazione del video nel sito del Centro, ma per me fu una sorta di “patente” di riconoscimento per la mia poesia e una notevole infusione di autostima. Qualche mese dopo invece partecipai al mio primo concorso con una casa editrice, la Fara di Rimini, inviando una copia della mia raccolta “Magari in un’ora del pomeriggio”. Quando Alessandro Ramberti, titolare della casa editrice, mi scrisse la mail in cui dichiarava che avevo vinto il concorso e che quindi il libro sarebbe stato pubblicato di lì a breve, la mia gioia era incontenibile. Forse quello che scrivevo qualcosa valeva, dopotutto. Una porta era stata aperta.

Poeticamente parlando noi ci siamo conosciuti poco prima dell’uscita di Nei resti del fuoco. Era il 2017. Il libro veniva pubblicato da Danilo Mandolini e soci perché vincitore della seconda Edizione del Premio Arcipelago Itaca, categoria raccolta inedita. Il tuo ultimo lavoro, La strada del nutrimento, è invece il lavoro che, dopo essersi imposto come meritevole in diversi concorsi e premi (tra gli altri, Bologna In lettere 2020, Premio Giorgi 2020, Premio Casa di Dante 2020, Narrapoetando di Fara Editore 2021), ha trovato in Fara il suo editore. Un ritorno a casa, considerando che Fara aveva pubblicato già il tuo primo libro, nel 2011.
La strada del nutrimento è un lavoro antologico che raccoglie poesie scritte in tempi diversi, lo dichiara espressamente il sottotitolo. Alcune delle poesie lì contenute sono anche antecedenti al 2017. Eppure nonostante questo parziale accavallamento temporale con Nei resti del fuoco, mi pare di poter affermare che i due lavori siano profondamente diversi. Diversi per stile, per forma e anche per visione. Vuoi parlarci brevemente della genesi dei tuoi ultimi due lavori poetici e dei punti di contatto/o non contatto che esistono tra loro? Come si è evoluta la tua scrittura nel tempo?

La scrittura è sempre in divenire, come la vita del resto, e come credo qualsiasi altra forma d’arte. Dopo aver “chiuso” un disco o un libro si avverte un senso di liberazione per la conclusione di un percorso che a volte può essere durato anni. Tornando però a mente fredda su quanto consegnato “alla storia”, almeno nel mio caso, trovo sempre qualcosa che avrebbe potuta essere detta meglio, un dettaglio che poteva essere approfondito, una sfumatura che magari non mi rappresenta più del tutto. Ma indietro non si torna ed è giusto così, perciò si prosegue con la speranza di evolvere. La mia prima raccolta “Magari in un’ora del pomeriggio” raccoglieva quasi venti anni di suggestioni e tentativi coagulati poi in uno stile piuttosto caratterizzato e perfino limitato, dove accanto a un uso di un endecasillabo novecentesco (mutuato dagli ermetici, da Luzi e soprattutto dalla stessa Spaziani), abbinavo un lessico volutamente ristretto, con fare quasi petrarchesco, interno a un macro-tema, la mancanza, declinata come assenza di legittimità ad esistere di un io (l’io poetico), quando si fosse trovato nella condizione di non essere “sotto lo sguardo” di un tu vivificante, un “altro” dalle caratteristiche volutamente ambigue, a metà tra essenza messianica e presenza carnale. In “Nei resti del fuoco” invece facevo simbolicamente un falò dei miei approdi precedenti (anche metricamente, prediligendo versi liberi che avessero una loro unità ritmica staccata da metriche tradizionali) trovandomi però in un interregno dove la sostanza poetica era ancora spuria, in bilico tra il lirismo del primo libro e un ritrovato disincanto materico, dove l’io poetico si affranca dal bisogno di legittimazione “fuori da sé” e trova però nella contemplazione di “ciò che resta” la voce che dice. Una voce che canta (comunque) di una bellezza da sopravvissuto, di un incanto della maceria, della frana, e di un “ciò che non è stato”. Una contemplazione di un possibile destino di polvere per i nostri ricordi e per i nostri luoghi. “La strada del nutrimento”, invece, le cui prime poesie sono state scritte perfino prima delle ultime poi contenute in “Nei resti del fuoco”, doveva inizialmente essere un “correggere il tiro” rispetto a quel libro, introducendo una sorta di riscatto dalla polvere e dall’annientamento con la riproposizione di un dialogo tra un io e un tu (come nel primo libro) che da un mondo ormai “oltre”, gradualmente, contemplato anche in questo caso con modalità da sopravvissuti, incominciano a riconoscersi come le essenze di un figlio e di una madre (io e mia madre Vanna), in un limbo onirico imbevuto di ricordi sovrapposto al tempo presente. Ma grazie a un’acuta osservazione di una mia amica poetessa (che non ha mai pubblicato ma con una voce forte e chiara) circa il tempo verbale delle poesie contenute in “La strada del nutrimento”, il luogo dell’incontro e del dialogo diventa un viaggio di salvezza dove le individualità dell’io e del tu si fondono e si intercambiano dopo essersi interamente riconosciute, alla fine del viaggio, in un’esistenza unitaria, non-duale, spirituale, di amore totale. E il viaggio, dove termina il libro, è solo appena iniziato. Metricamente e stilisticamente, “La strada del nutrimento” recupera certe soluzioni metriche del passato (endecasillabi compaiono di tanto in tanto), accanto a una maggior libertà ritmica che mira a un’unità conclusa all’interno del singolo componimento. L’introduzione della parola “amore” rappresenta per me un punto di svolta: mi ero proibito di usarla per oltre un ventennio, sentendola troppo carica di metasignificati, svilita dall’uso abnorme che se ne fa a ogni piè sospinto in ogni campo dello scibile umano. Ma la conclusione (che è un inizio) a cui il libro giunge non può essere definita in nessun altro modo che “amore”. E questa è per me una liberazione gratificante. E poi in questo libro il dato biografico assume contorni certi, tanto che ho dedicato il libro a mia madre e nel libro la chiamo per nome, come chiamo per nome me stesso. In passato invece la biografia, pur alla base di ciò che ho scritto, era volutamente più sfumata, forse anche idealizzata e certamente ambigua. Ecco, questa ambiguità non fa più parte dei valori che vorrei attribuire alla mia scrittura.  A livello stilistico invece ho sempre creduto fermamente in una scrittura piana, con riduzione quasi al minimo di artifici retorici, divieto assoluto di arcaismi e di inversioni aggettivo/sostantivo, senza innalzamento lessicale, senza enfasi. La poesia per me deve nutrirsi di una lingua italiana neutra, cristallina, chiara e precisa, lessicalmente aderente alla contemporaneità. Per me non esiste un registro poetico della lingua, la poesia nasce dal suono, dal ritmo, dal significato e dall’immagine che genera.

Torno su La strada del nutrimento. Nella prefazione al libro, il poeta Massimiliano Bardotti nel riconoscerti la capacità di avere cura del tempo, scrive che avere cura del tempo è impresa impossibile se non si riesce ad avere cura delle piccole cose, di certi particolari che potrebbero sembrare insignificanti, e invece sono proprio quei particolari ad essere fondamentali nella vita. Senza di essi è impensabile ogni felicità. Il tempo, dunque. Platone, nel Timeo, definisce il tempo come l’immagine mobile dell’eternità, ad essa gerarchicamente inferiore. Nella concezione neoplatonica, e almeno fino ad Agostino, resta in piedi la distinzione tra tempo ed eternità e il concetto di tempo viene fatto coincidere con quello di moto dell’anima e della sua vita interna. La definizione forse più commuovente (e complessa) di tempo è però quella di Kant, tempo come forma a priori della sensibilità.
Ora senza scendere in dibattiti e diatribe filosofiche, ti chiedo, come possiamo provare a definire, oggi nel 2021, e in questa condizione di allarme, instabilità e incertezza mondiale, il tempo? E una volta definitolo, che cosa possiamo legittimamente intendere con l’espressione avere cura del tempo?

Il tempo è sempre stato, nella mia scrittura, davvero pane quotidiano. Ma devo dire che la concezione del tempo che avevo qualche anno fa non è assolutamente in linea con quella che ne ho oggi. Per dirla con Mircea Cărtărescu (del quale ho amato molto la trilogia “Abbacinante”), una volta affermavo con convinzione: “Il passato è tutto.” Mentre adesso, e ne “La strada del nutrimento” lo scrivo proprio in questi termini, “il passato non è niente”. Con questo non voglio dire che si debba cancellare il nostro vissuto, i nostri ricordi e ciò che ci rende ciò che siamo oggi ma ho trovato necessario affermarlo per affrancarmi da una voluttà della malinconia che mi faceva camminare, poeticamente e nella vita reale (c’è differenza?), con lo sguardo del tutto rivolto indietro. Il luogo dove incontro mia madre, dove ci incontriamo, nel libro, è nel qui e ora, è un divenire e un farsi che accade incessantemente. In questo consisteva l’appunto della mia amica poetessa: “perché parli di tua madre al passato? Usa il presente. Lei è qui, ora.” Questo ha del tutto “stravolto” le mie convinzioni letterarie (ed esistenziali!) e dato la stura a un vero e proprio torrente di ispirazione e rinnovamento.
Qui sta la cura del tempo, nel 2021, come nel 3000 o nel 2000 avanti Cristo: essere presenti, avere cura di ogni accadimento, osservare e osservarsi senza sbilanciarsi in avanti inseguendo prospettive sconosciute (il cosiddetto futuro) che si fondano su qualcosa che non esiste già più (il passato). Ed è in questa cura dell’attimo presente che si realizza la pienezza, che si esprime anche con la cura dei dettagli minimi, dei particolari che sembrano al margine dell’esistere e invece portano segni della nostra eternità. Questo approdo però nel mio libro si realizza strada facendo e, come dicevo anche prima, è solo all’inizio. In questo ultimo anno tutto è davvero cambiato, dentro e fuori. Ed è inutile girarci intorno: il mondo come era prima non sarà più. Si inizia a guardarsi dentro, ad aprire gli occhi. Questa sosta forzata da tutte le quotidiane, a volte frenetiche attività, mi ha permesso di dedicarmi a un vero e proprio reset della mia vita e a maturare nuova consapevolezza, oltre che a incominciare un cammino che non ho certo esitazione a chiamare “rinnovamento spirituale”, che si è riflesso ovviamente e necessariamente anche in tutto ciò che faccio. Ma questa non credo sia la sede per parlarne.

Ritmo. Con un musicista, compositore e polistrumentista non posso perdere l’occasione di approfondire il tema del ritmo. Alla luce di quanto leggiamo nei migliori manuali di metrica, possiamo definire il ritmo come la cadenza musicale su cui si fonda l’armonia poetica che caratterizza il verso. Benedetto Croce, ha individuato nel ritmo l’anima dell’espressione poetica e, in quanto tale, l’espressione poetica stessa, l’intuizione e la ritmazione dell’universo, come il pensiero ne è la sistemazione. Come definiresti tu il ritmo? E ancora, quali influenze esistono tra la tua attività musicale e quella di scrittura poetica? In che modo quei due mondi interagiscono e si influenzano in termini ritmici?

Il ritmo è il riconoscere una periodicità in alcune sequenze di pieni e vuoti che risuonano in modo più o meno evidente con le sequenze di pieni e vuoti che caratterizzano la nostra vita, scandite dal respiro, dal pensiero, dal ricordo, dal sogno, dalle parole che pronunciamo o leggiamo o immaginiamo. Tutto è ritmo. Perfino la materia che, stando alla fisica, non è assolutamente solida ma è un insieme di vibrazioni a cicli diversi, è ritmo, in fondo. Perché cos’è la vibrazione se non ritmo? La mia attività musicale e quella poetica sono sempre state fortemente interconnesse perché nascono da un’origine comune, da un magma di sensazioni, ricordi, proiezioni, sogni che tende a mettersi a fuoco e a coagularsi in qualcosa da dire o semplicemente in un flusso sonoro che dice senza parole ma parla lo stesso. Le attività musicali e quelle di scrittura poetica si influenzano ritmicamente perché non può davvero essere altrimenti. Un colore descritto, una sensazione riportata in parole trova quasi sempre il suo corrispettivo in una forma sonora che nasce senza programmaticità, afferendo da quello stesso magma da cui nascono le parole, quando si palesano. Il nucleo dell’ispirazione, per me, è ancora essenzialmente l’occasione montaliana, il cogliere un atomo di luce che testimonia un oltre, uno sguardo fulmineo su un mondo di rapporti perfetti e assolutamente non euclidei tra piani di esistenza, entità e tempi diversi, uniti per un solo istante in un equilibrio che cade quasi subito, dopo averlo però colto, visto. Ma quell’equilibrio poi si cerca di fissarlo, di ricordarlo, di inseguirlo e di dargli una forma, un ritmo in cui ci si riconosce. E così nascono strutture che diventano musica o testi scritti che cercano di cogliere e descrivere quel nucleo originario rivestendolo di strutture in cui il ritmo ha un ruolo importante.

Scrittura in prosa e lavori musicali. Hai voglia di parlarci brevemente anche di queste tue altre forme espressive e creative? Ho accennato a entrambe nella tua presentazione all’interno della prima domanda ma mi piacerebbe se aggiungessi tu qualche dettaglio e coordinata in più. Dove è possibile ascoltare e comprare i tuoi lavori musicali? Esiste un sito contenitore da consultare?

Accanto alla poesia e alla letteratura ho sempre nutrito un grande amore per le letterature cosiddette “di genere”, in particolare la fantascienza e il mio primo desiderio fu proprio quello di scrivere fantascienza o narrativa in genere. Poi però fui folgorato dalla poesia e mi dedicai per anni solo a quella. Ma la passione per raccontare è rimasta. Diciamo che sto lavorando ormai da un po’ a un nucleo di ispirazione narrativa che deriva direttamente da “La strada del nutrimento” perché mi pare che nella materia biografica tradotta in forma poetica ci sia anche molto spazio per un risvolto narrativo. Per quanto riguarda la fantascienza invece, dopo l’esperienza di collaborazione con Paolo Frusca, che era un autore già pubblicato da Mondadori e che adesso scrive con buon successo storie di storia sportiva, ho un po’ perso interesse, perché quel tipo di letteratura “inquadrata” in cui si devono seguire linee guida per non uscire dal genere non rientra più nei miei interessi di scrivente, mentre come lettore invece la fantascienza la amo ancora, ma sono legato ad autori del passato e amo storie più vicine a certo realismo magico che narrazioni di imperi galattici o futuri distopici troppo dolorosamente simili al nostro attuale presente. Sarò un inguaribile romantico ma se devo leggere narrativa fantastica voglio ancora sognare e non angosciarmi. Comunque per la narrativa, sempre tenendo fede a quel nucleo d’ispirazione di cui parlavo poco sopra, ho pubblicato qualche breve racconto in un paio di antologie e conto di realizzare un libro che potrà essere letto come un romanzo ma che può essere visto come una serie di racconti legati tra loro. Per quanto riguarda i miei lavori musicali, gli album del mio progetto di musica elettronica almost automatic landscapes sono reperibili sulla mia pagina bandcamp https://almostautomaticlandscapes.bandcamp.com/ , mentre i dischi della mia band Video Diva si trovano sulla pagina bandcamp della nostra casa discografica https://swissdarknights.bandcamp.com/. Tutti e due i progetti poi sono reperibili nei canonici canali di musica in streaming come spotity, youtube, apple music, amazon music, soundcloud ecc. Ho poi un blog dove tengo traccia di tutte le mie varie attività https://davidevalecchi.blogspot.com/ e dove sono condensati i vari link per ordinare libri e dischi.

Lavori di traduzione. Si discute da anni di quali siano gli esatti confini del lavoro di traduzione. La traduzione implica solo un’attività di trasferimento e decodifica del testo in una lingua diversa dall’originale o presuppone anche un’attività di riscrittura del medesimo da parte di chi se ne occupa? Enrico Terrinoni, che insomma di traduzioni se ne intende, sostiene convintamente che tradurre significa ricreare, mettere in campo strategie creative, fare in modo che un’opera esca dall’ombra e riprenda una nuova luce. Tutto molto romantico ma anche molto rischioso. Personalmente concordo con Terrinoni ma sono anche convinta che il lavoro di traduzione debba avvenire, potrebbe sembrare banale sottolinearlo ma purtroppo così non è, nel rispetto della visione e della lingua del poeta o dello scrittore che si traduce. In altri termini, è il traduttore che deve essere al servizio del testo tradotto e non il contrario. Come vedi tu la questione?

Sì, assolutamente, è il traduttore che deve essere al servizio del testo tradotto anche se è davvero molto difficile non riversare nel testo almeno in parte e molto probabilmente in parte anche inconsapevolmente la concezione estetica del traduttore stesso. Io ho tradotto non certo alta letteratura ma romanzi mainstream americani, tendenti al thriller, e un saggio storico di interesse ma tutt’altro che rigoroso. E ho spesso fatto i conti con una prosa banale, infarcita di cliché, piena zeppa di trucchetti da scuola di scrittura creativa. Se devo essere sincero non è stata una gran bella esperienza anche se nel mio piccolo ho cercato di nobilitare almeno in parte testi che, a due anni dalla loro uscita, nessuno ricorderà più. Purtroppo o per fortuna sono un amante della bella pagina e vorrei poter leggere soltanto prosa perfetta. Devo dire però che tradurre è davvero il modo più diretto e profondo di entrare dentro un’opera e certe scene che ho tradotto in quei romanzi le porto ancora scolpite vividamente nella memoria, come se si trattasse di episodi della mia vita reale. L’esperienza più bella è stata tradurre circa un centinaio di pagine di “Melmoth the Wanderer” di Charles Robert Maturin, un romanzo gotico del periodo romantico inglese, pubblicato per la prima volta nel 1820, per il quale ricevetti i complimenti della editor che lavorava con me che mi fece notare come l’inglese letterario e arcaico fosse proprio pane per i miei denti. L’ironia della sorte vuole però che questa traduzione non mi sia stata accreditata, in quanto richiestami come “pezza d’appoggio” dopo che l’editore si era accorto di aver pubblicato le prime copie dell’opera prive delle ultime cento pagine per cui dovette correre ai ripari in fretta e furia. Forse era un segno del destino, chissà. Per adesso non ho intenzione di proseguire come traduttore, ma di sicuro ho fatto tesoro di quell’esperienza che mi ha portato a stretto contatto con il mondo editoriale mainstream e non è detto che questo bagaglio non mi possa tornare utile in futuro.

I tuoi prossimi progetti. Domanda aperta, apertissima, parlacene.

È presto detto. All’orizzonte ci sono sempre quei due poli che da decenni caratterizzano la mia vita e cioè la musica e la scrittura. Per quanto riguarda la musica entro il 2021 vorrei riuscire a pubblicare un nuovo disco del mio progetto almost automatic landscapes (per il quale ho già pronte decine e decine di idee che aspettano solo di essere sviluppate e prodotte) e il nuovo album dei miei Video Diva che doveva essere già fuori ma la cui registrazione è stata rallentata per i motivi che tutti conosciamo e che condizionano la nostra vita da ormai più di un anno. Sul piano letterario invece vorrei portare a compimento quel mio progetto di scrittura narrativa di un romanzo composto di racconti e sicuramente continuare a scrivere poesia sviluppando le intuizioni già emerse con “La strada del nutrimento”. E poi sento che sia giunto il momento di tornare a collaborare con anime affini per cercare di portare un po’ di Bellezza nel mondo (almeno nelle intenzioni), magari organizzando eventi in cui si fondano suoni e parole, come ho sempre amato fare. La novità del 2021 per me, visto che non avevo mai fatto nulla di simile prima, è che curerò una trasmissione radiofonica (per ora un ciclo di 4 puntate) per fangoradio che si intitola “Cristalli Sognanti” (https://www.fangoradio.com/shows/cristalli-sognanti/) in cui mi sono inventato una formula abbastanza inconsueta che unisce musica ambient/sperimentale con letture di fantascienza e poesia contemporanea. Le prime due puntate saranno dedicate alla fantascienza con letture di racconti di autori classici ma non desueti, mentre le ultime due puntate saranno incentrate sulla poesia italiana contemporanea.

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