Alfonso Gatto, Un poeta in prosa, La scuola di Pitagora 2023
[…] Se i figli fossero educati a rappresentarsi la verità sui padri dai padri stessi – babbo e mamma intendo che chiudono gli occhi per non farsi vedere – il mondo, oltre a meritare la sua innocenza, salverebbe alfine il piacere d’essere ch’è proprio quello che ci sta a cuore. L’antica strage ove quasi emblematicamente si scaricò l’autorevole miseria dei persecutori sarebbe alfine placata: rimarrebbe, quale è sempre stata ad opera dei maestri della pittura, un modo per le madri di stringersi più forte a sé, col braccio che ne scorcia le tenere gambette dal gonnellino, il meraviglioso fanciullo che crede a tutto.
Invece, una delle più insolenti e tristi menzogne che si perpetua è quella di giustificare, in nome dei figli, compromessi, viltà, usure, conformismo, segnando d’affaticate rinunce e di rivincite la propria corruzione e l’irreparabile decadenza dell’amore.
Di più: si cerca di riparare anche nei principii l’imbelle prestigio dell’uomo che non mette più in gioco se stesso, con la «missione» di risparmiare ai figli la pericolosa scoperta della vita ove dovrebbe consistere per loro l’unica ragion d’essere e di nascere quasi miracolosamente un‘altra volta. In quante occasioni mi son sentito invitare a corrompermi, a rinunciare, a mitigarmi, a conformarmi, in nome di figli. Lo splendore di un’esosa economia privata, nei fasti di una riconosciuta licenza sentimentale che salva in casa, tra le pareti domestiche, le libertà sacrificate agli interessi degli uffici, delle cariche e degli onori, avrebbe dovuto essere – come dire? – il primo campicello del mio benessere pagato col mestiere di vivere, e, strada facendo, col mutuo delle parole. «Ai figli, non pensi ai tuoi figli?», mi ripeteva con l’estemporaneo accoramento degli italioti guareschiani uno dei più veloci affaristi delle scritture e delle sventure contemporanee. Che rispondergli, se non la semplice verità che l’immagine e la presenza dei figli dovrebbe trattenerci almeno dal parlare per loro, innocenti, delle nostre colpe? E che chiamarli in causa come «beneficati» ogni volta, significa già considerarli orfani e soli? […]
Da La strage degli innocenti
È difficile entrare e orientarsi nel territorio vasto e labirintico delle prose che compongono le Cronache del piacere di Alfonso Gatto, nella successione dei temi variegati che rimbalzano dalle vicende private allo sport, dalla cronaca spicciola di costume alle citazioni di Kafka e Leopardi. Gatto scrive come se avesse di fronte un amico cui confida impressioni, umori momentanei, disagi e nostalgie, ma anche il ruvido di un’etica sempre all’erta. A leggerle, si ha la sensazione di frequentare «circoli di un colloquio minuto e di quel pettegolo notiziario che avvicenda morti e vivi, fortunati a sfortunati, vincitori e vinti nel commento dell’ultim’ora prima del sonno» (Le città sono gli uomini). Forse il modo migliore per affrontare la molteplicità di queste scritture sarebbe accettarle come una collezione disordinata di accadimenti, una sorta di minima enciclopedia da ordinare per temi, privatamente.
Dal risvolto
A. Gatto, Un poeta in prosa. Cronache del piacere 1957-1958, La scuola di Pitagora 2023. A cura di Epifanio Ajello.
Alfonso Gatto è nato a Salerno nel 1909. Il suo primo libro di poesie, Isola, lo pubblica a Napoli nel 1932; seguiranno Morto ai paesi (1937) e Poesie (1939). A Milano, nel 1934 collabora con la rivista di architettura «Casabella» diretta da Edoardo Persico. Nel 1938, a Firenze, dà vita, con Vasco Pratolini, alla rivista «Campo di Marte». Nel frattempo, collabora con i maggiori quotidiani, e pubblica, nelle riviste letterarie, racconti, messi insieme ne La sposa bambina (1943). Nel 1949 raccoglie nel volume Il capo sulla neve poesie sulla Resistenza. Dopo la Liberazione, iscrittosi al partito comunista, dirige il quotidiano «Milano sera», «La settimana» e, uscito dal PCI, nel 1951, il settimanale «Epoca». Dopo la guerra pubblica le Nuove poesie (1950) e Osteria flegrea (1962). Il 1962 è anche l’anno di Carlomagno nella grotta, prose sui problemi del Meridione. Ha vinto vari premi letterari, tra i quali il Viareggio nel 1966, con la raccolta La storia delle vittime. È morto nei pressi di Grosseto in un incidente automobilistico l’8 marzo 1976. Di sé ha lasciato scritto «Voglio che la poesia sia la sola a dire chi sono, come sono vissuto e perché e con la naturalezza che le è propria».