Danilo Dolci, Chi gioca solo, Einaudi 1966
[…] Molti, i più chiari e informati, ripetono: che Giustizia è quella che si ferma di fronte alla potenza e alla ufficialità di certe persone e di certi gruppi? È ovvio che non può alcuno Stato, non può alcuno al mondo ottenere fiducia e partecipazione dai cittadini finché, neghittosamente di parte, si arrocca a coprire il falso e la prepotenza parassitaria.
E più esplicitamente insistono: finché i rappresentanti dello Stato cercano ad ogni costo di coprire generali, questori, ministri, sottosegretari più o meno inseriti nella struttura mafioso-clientelare; finché si vuol far risultare ad ogni costo che sono i mafiosi a circuire il loro politico e non si critica il reciproco appoggio – nella zona da decenni constatabile -, lo sfruttamento reciproco; finché non si fa chiaro fino dove arriva nel comportamento di certi «politici» la loro responsabilità personale, e fino dove la corresponsabilità governativa; finché ci capita di incontrare persone ad altissimo livello di responsabilità – ministri, sottosegretari, magistrati – le quali in privato ammettono di sapere che certi loro colleghi sono uomini della mafia (cioè appartenenti ad essa o ad essa disponibili), ma non osano assumere posizioni aperte; finché funzionari e parlamentari continueranno a pretendere dalla povera gente indifesa, sebbene protetti dal proprio mandato, quel coraggio che essi stessi non hanno; finché non si supera la scivolosamente ambigua genericità di chi tenta di coprire la propria mancanza di coraggio dicendo che tutti sono ugualmente bacati; finché ogni gruppo, ogni partito che si dice democratico, non osa sciogliere i suoi vincoli mafioso-clientelari; finché la maggioranza delle persone si comporta come se questi problemi non la riguardassero affatto; finché cioè, ad ogni livello di responsabilità, non si sarà disposti a rischiare per la verità, osando opporsi in modo organizzato all’ingiustizia e alla violenza organizzata ovunque essa sia -: il corpo sociale non potrà che rimanere sostanzialmente fermo, infetto.
Da Chi gioca solo
Danilo Dolci presenta questo suo nuovo libro proprio quando i problemi della Sicilia, dopo il clamore di scandali vecchi e nuovi, sono più che mai al centro della discussione politica e della rinnovata attenzione dell’opinione pubblica.
Nelle pagine di Chi gioca solo operai, studenti, professionisti, funzionari cercano di chiarire le difficoltà di una vita di gruppo e di una organizzazione democratica in Palermo città e nell’entroterra, e come stenti a crescere quello spirito di cooperazione che pure è strumento indispensabile per unire l’uomo alla società, l’impegno individuale alla pianificazione democratica.
Queste interviste possono insomma spiegare perché un diffuso malcontento non riesca a tradursi in azione politica, in movimento nuovo, e perché gli organi preposti a garantire la vita democratica siano finora intervenuti in modo gravemente insufficiente.
Ancora una volta, con le sue diagnosi dal vivo, Dolci aggiunge nuovi particolari alla radiografia di una società che sottogoverno e prepotere mafioso hanno spinto a credere che «chi gioca solo non perde mai».
Dalla scheda bibliografica Einaudi, Settembre 1966
D. Dolci, Chi gioca solo, Einaudi 1966.
Danilo Dolci (Sesana, 1924-Trappeto, 1997), dopo l’esperienza di Nomadelfia, «la città dove la fraternità è legge», si trasferì a Trappeto vicino Trapani, iniziando un’instancabile attività di animazione sociale. Tra le sue opere: Inchiesta a Palermo (1957), Spreco (1960), La struttura maieutica e l’evolverci (1996), Racconti siciliani (2008), Banditi a Partinico (2009) e Processo all’articolo 4 (2011).