Trasfusioni

René Char, Sulla poesia 1936-1974, traduzione di Laurie Galfetti Hunziker e Anna Ruchat

 

Eccoci di nuovo soli faccia a faccia, o Poesia. Il tuo ritorno significa che devo ancora una volta misurarmi con te, con la tua giovanile ostilità, con la tua tranquilla sete di spazio, e tenere pronto, per farti felice, questo ignoto equilibratore di cui dispongo. 

                                                                                                                                  Fine degli incidenti di questa notte

 

Ammetto che l’intuizione ragiona e detta ordini a partire dall’attimo in cui, portatrice di chiavi, non dimentica di vibrare il mazzo delle forme embrionali della poesia attraversando le alte gabbie dove dormono gli eco, i pre-prodigi eletti che al passaggio li immergono e li fecondano.

Accade al poeta di arenarsi nel corso delle sue ricerche su una riva dov’era atteso solo molto più tardi, dopo il suo annientamento. Insensibile all’ostilità dell’arretrato ambiente circostante, il poeta si organizza, abbatte il proprio vigore, frammenta il termine, spilla le cime delle ali.

Il poeta non può rimanere a lungo nella stratosfera del Verbo. Deve acciambellarsi in lacrime nuove e spingersi più avanti nel proprio ordine.

La poesia è ascensione furiosa; la poesia, il gioco delle sponde aride.

Il poeta, conservatore degli infiniti volti di ciò che vive.

Il poeta, passibile di esagerazione, valuta correttamente nel supplizio.

Non è degno di un poeta mistificare l’agnello, investire la sua lana.

La poesia è, di tutte le acque limpide, quella che meno si attarda a rispecchiare i suoi ponti.
Poesia, la vita futura all’interno dell’uomo riqualificato.

Terra mobile, orribile, squisita e condizione umana eterogenea si afferrano e qualificano reciprocamente. La poesia si sottrae alla somma esaltata delle loro marezzature.

La poesia è l’amore realizzato del desiderio rimasto desiderio.

Alcuni reclamano per lei la proroga dell’armatura; la loro ferita ha la melanconia di un’eternità di tenaglie. Ma la poesia che va nuda sui suoi piedi di giunco, sui suoi piedi di ciottoli, non si lascia ridurre in nessun luogo. Donna baciamo il tempo folle sulla bocca; dove fianco a fianco con il grillo zenitale lei canta la notte d’inverno nella povera panetteria sotto la mollica di un pane di luce.

Il poeta non se la prende per l’odiosa estinzione della morte, ma confidando nel proprio tocco particolare, trasforma ogni cosa in lane prolungate.

Sulla soglia della pesantezza il poeta come il ragno costruisce la sua strada nel cielo. In parte nascosto a se stesso, appare agli altri nei raggi della sua astuzia inaudita, mortalmente visibile.

L’alloggio del poeta è dei più vaghi; il baratro di un fuoco triste permette l’esistenza del tavolo di legno bianco. La vitalità del poeta non è una vitalità dell’aldilà, ma un punto diamantato attuale di presenze trascendenti e di temporali peregrini.

Essere poeti significa aver fame di un disagio la cui consumazione tra i gorghi della totalità delle cose esistenti e presentite, provoca, al momento di chiudersi, la felicità.

La poesia dà e riceve dalla sua moltitudine l’intero cammino del poeta che migra dal suo nascondiglio. Dietro questa persiana di sangue brucia il grido di una forza che si distruggerà da sé perché aborrisce la forza sua sorella soggettiva e sterile.

Il poeta tormenta, grazie a insondabili segreti, la forma e la voce delle sue fontane.

Il poeta raccomanda: «Chinatevi, chinatevi di più.» Non sempre esce indenne dalla sua pagina, ma come il povero sa trarre vantaggio dall’eternità di un’oliva.

Ad ogni crollo delle prove il poeta risponde con un fuoco a salve di futuro.

Dopo la restituzione dei suoi tesori (vorticando tra due ponti) e l’abbandono dei suoi sudori, il poeta, la metà del corpo, la cima del respiro nell’ignoto, il poeta non è più riflesso di un fatto compiuto. Niente più lo misura, lo lega. La città serena, la città imperforata è davanti a lui.

In piedi, che cresce nella durata, il poema, mistero che intronizza. In disparte, che segue il viale della vigna comune, il poeta, grande iniziatore, il poeta intransitivo, qualunque nei suoi splendori intravenosi, il poeta che trae disgrazie dal proprio abisso, con la Donna al suo fianco che s’informa dell’uva rara.

Mago dell’incertezza, il poeta non ha che soddisfazioni adottive. Cenere sempre incompiuta.

Sono il poeta, sobillatore di pozzi inariditi che i tuoi lontani scenari, amore mio, approvvigionano.

L’esperienza che la vita smentisce, quella che preferisce il poeta.

Al centro della poesia ti aspetta un contraddittore. È il tuo sovrano. Lotta lealmente contro di lui.

In poesia divenire è riconciliare. Il poeta non dice la verità, la vive, e vivendola diventa bugiardo. Paradosso delle muse: perfezione della poesia.

Nel tessuto della poesia deve ritrovarsi un ugual numero di gallerie nascoste, di camere d’armonia e al tempo stesso di elementi futuri, di porti al sole, di piste capziose e di esistenti che si chiamano tra loro. Il poeta è traghettatore di tutto ciò che forma un ordine. E un ordine insorto.

Poeti, bambini della campana a martello.

La poesia mi ruberà la mia morte.

Non si può iniziare una poesia senza una particella di errore su di sé e sul mondo, senza un filo d’innocenza nelle prime parole.

La poesia è quel frutto che teniamo stretto, maturato, con gioia, nella mano, nel preciso istante in cui appare, di futuro incerto, sul gambo ricoperto di brina, nel calice del fiore.

Poiché il disegno della poesia è quello di renderci sovrani spersonalizzandoci, tocchiamo, grazie al poema, la pienezza di ciò che era soltanto schizzato o deformato dalla millanteria dell’individuo.
Le poesie sono pezzi di esistenza incorruttibile che noi lanciamo sul grugno ripugnante della morte, ma abbastanza in alto perché, rimbalzando su di esso, cadano nel mondo nominatore dell’unità.

Nei versi ogni parola o quasi deve essere utilizzata nel suo senso originale. Alcune staccandosi diventano polivalenti. Ve ne sono di amnestiche. La costellazione del Solitario è tesa.

Il mio mestiere è un mestiere di punta.

Un poeta deve lasciare tracce, non prove, del suo passaggio. Soltanto le tracce fanno sognare.

Cos’è la realtà senza l’energia dislocatrice della poesia.

Fare poesia è prendere possesso di un al di là nuziale che si trova sì in questa vita, molto attaccato ad essa e tuttavia prossimo alle urne della morte.

Poesia, unica ascesa degli uomini, che il sole dei morti non può offuscare nell’infinito perfetto e ciarlatanesco.

La poesia è nello stesso tempo parola e provocazione silenziosa, disperata del nostro essere esigenti per la venuta di una realtà che sarà senza rivali. Imputrescibile questa. Immortale no. Perché corre i pericoli di tutti. La sola però che visibilmente trionfi sulla morte materiale. Tale è la Bellezza, la Bellezza d’alto mare comparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, a volte irrisoriamente consapevole, a volte luminosamente avvertita.

La sola firma in calce alla vita bianca è la poesia che la disegna. E sempre tra il nostro cuore esploso e la cascata apparsa.

La poesia vive di costante insonnia.

Sulla poesia accorre la notte, il risveglio s’infrange quando ci si esalta ad esprimerlo. Quale che sia la lunghezza della sua corda, la poesia si ferisce a contatto con noi, e ferisce noi per le sue fughe.

Il poeta è la parte dell’uomo refrattaria ai progetti calcolati. Può essere chiamato a pagare qualunque prezzo per questo privilegio o questa palla al piede. Deve sapere che il male viene sempre da più lontano di quanto si creda e non muore necessariamente sulla barricata che si è scelta per lui.

La poesia ha un retroterra di cui solo la recinzione è buia.
Nessuna bandiera ondeggia a lungo su quella banchisa che, secondo il suo capriccio, si dà a noi e si riprende. Ma indica ai nostri occhi il lampo e le sue risorse vergini.

In poesia non si abita che il luogo che si lascia, non si crea che l’opera dalla quale ci si distacca, non si ottiene la durata che distruggendo il tempo.

Il dovere del Principe è, durante la tregua delle stagioni e la siesta dei beati, produrre un’Arte con l’aiuto delle nuvole, un’Arte che sia uscita dal dolore e porti al dolore.

L’atto straziante e così grave di scrivere quando l’angoscia si solleva su un gomito per osservarci e quando la nostra felicità s’impegna nuda nel vento del sentiero.

Il poeta si nota dalla quantità di pagine insignificanti che non scrive. Ha tutte le strade della vita dimentica per distribuire le sue mezze elemosine e sputare quel piccolo sangue di cui non muore.

La poesia sarà sempre in prima battuta un’evasione, la segreta imposta e la certezza che questa evasione dalla falcata lunga e assassina è riuscita.

In amore, in poesia, la neve non è la lupa di gennaio ma la pernice del rinnovamento.

Eccoci di nuovo soli faccia a faccia, o Poesia. Il tuo ritorno significa che devo ancora una volta misurarmi con te, con la tua giovanile ostilità, con la tua tranquilla sete di spazio, e tenere pronto, per farti felice, questo ignoto equilibratore di cui dispongo.

 

A torto contenta

Quando le conseguenze non sono più negate la poesia respira, dice che ha ottenuto la sua area. Iris scampato alla piena.

A respiro alto, scendere all’indietro, poi procedere obliqui e seguire il sentiero che porta soltanto al cuore insanguinato di sé, fonte e sepolcro della poesia.

L’influsso di miliardi di anni da ogni parte e circolarmente il canto mai reso a Orfeo.

Gli dei sono nella metafora. Travolta dallo scarto brusco, la poesia si accresce di un aldilà senza tutela.

La poesia ci mette a giacere in un dolore aggiornato senza separare il freddo dall’ardente.

Venne una sera in cui il cuore non si riconobbe più nelle parole che pronunciava per sé solo.
Il poeta fa saltare i legami di ciò che tocca. Non insegna la fine dei legami.

 


René Char nasce il 14 luglio 1907 a l’Isle-sur-la Sorgue, Vaucluse. Fa parte del gruppo di Breton e Eluard, pur non praticando una poesia surrealista in senso stretto, soprattutto a partire dai Feuillets d’Hypnos. Durante l’occupazione tedesca si unisce alla Resistenza, ma nel dopoguerra si tiene lontano dalla vita pubblica, conducendo in Provenza una vita di poeta-contadino alternata a brevi soggiorni parigini. Nel 1988 in seguito a gravi problemi cardiovascolari viene ricoverato all’ospedale di Marsiglia, poi al Valde Grâce di Parigi dove muore il 19 febbraio.
Traduzioni italiane in volume. Poesia e prosa, Feltrinelli, Milano 1962 (traduzione di Vittorio Sereni e Giorgio Caproni); Fogli d’Ipnos 1943-44, (traduzione di Vittorio Sereni) Ritorno a sopramonte, Mondadori, Milano 1974 (traduzione di Vittorio Sereni); Arthur Rimbaud, Illuminazioni, SE, Milano 1987(traduzione di Roberto Rossi); Le vicinanze di Van Gogh, SE, Milano 1987 (Traduzione di Cosimo Ortesta) Canti della Balandrane seguito da Sfilacciatura dei sacchi di iuta, Milano 1993 (Traduzione di Stefano Agosti), Mulino primo. Al di sopra del vento, Bologna 1999 (traduzione di Adriano Marchetti); Poesie, Bari 1999 (Traduzione di Simone Pasko).

Laurie Galfetti Hunziker è laureata in architettura a Ginevra, vive dal 1975 a Riva San Vitale nel Canton Ticino. Insegna Yoga e canta con un gruppo vocale. Negli anni ’80 collabora con Franco Beltrametti alla traduzione di testi e poesie in francese e dal francese. Con Anna Ruchat traduce dall’inglese e rivede testi nell’ambito della Fondazione Franco Beltrametti. Spesso le è capitato di tradurre dal vivo Maestri spirituali.

Anna Ruchat è nata a Zu­ri­go nel 1959. Ha studiato filosofia e letteratura tedesca  Tho­mas Ber­nhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Friedrich Dürrenmatt, Victor Klemperer, sono tra gli autori che in molti anni di attività ha tradotto dal tedesco. Ha collaborato con “il manifesto” e diverse case editrici. Insegna alla Scuola europea di traduzione del Comune di Milano. Da qualche anno si occupa della Fondazione Franco Beltrametti.

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