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Alfonso Guida, Diari del transito, Joker 2023

 

Alice è la plasticità. Si muove come una pianta carnivora. È la tigre d’oro. È figlio settimino. Rimpicciolisce gli avidi rimorsi del bosco. Il coniglio ha orecchie lunghe e pendule. È bianco, gli occhi rossi. Neve e sangue. Inganna il suo mutismo. Alza la testa. Il corpo è immobile. Finire nella pazzia come dentro a una pancia. Il cappellaio è lo spirito libero. Ha perdonato perché ha dimenticato i suoi nemici, come Mirabeau, ricordava Nietzsche. Alice è una bambina che lecca con la lingua macchiata di ribes lo steccato acrimonioso del bosco. Non vuole uscirne. Entra, fiera, dove è destinata a sbucciare il frutto di un giardino nel più estremo dei boschi. Carroll ammansisce la bionda bestia nobile? Ausculta, fotografa. Alice si lava nella tinozza, scarmigliata, e col dito si allarga la vagina. Resta il bosco. Si affronta. È un guerriero. Dopo il pianto, giunge la pazienza. E la strada infoltita e persa tra roveti fu presto indovinata. Si uscì da corridoi bislacchi e tenui archi di Bretagna coi ruderi fumosi e le rovine incantate da una sfinge che balza dalle nuvole fin sopra la torre scozzese. Alice dorme. Il cappellaio analizza le falde. Il coniglio non aiuta nessuno. Uscendo è stato ammazzato. Era dentro la sanguinolenza già da animale paralizzato nel respiro. Il male nel farlo. Ci si vota a un sotterramento, l’ordine contemplativo. Alice porta in bocca la tua malattia e ha firmato perché vuole farsi risanare con la postilla che avvenga il prima possibile. E una matta li accanto le diceva: “Posso farti vedere? Sono un flauto e un quintale di vendemmia”, e scavalcò la ringhiera del padiglione di clausura. Alice restò nell’oro. La tavola dei confetti al mattino, l’indugio, l’oblungo decadere della testa verso sera contro una colonna fredda. Quando lasciò l’ospedale, andò a caccia di ragazzi. “Alice la cagna”, urlavano dai campi i bei pastori giovani, muscolosi, insieme ai loro figli e alle loro mogli che sapevano come Alice fosse insaziabilmente penetrata dai loro mariti sui covoni d’estate, tra greppie d’inverno, fino alla sifilide e al canto illune dei morti nascosti nel gregge, al caldo, con l’occhio imperturbabile di un lupo.

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La matrice di ogni violenza è il sesso.

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Non può liberarsi del suo assetto borghese André Gide. Prende frutti rossi da un giardino arabo. La sua terrestrità confluisce nell’humus profondo e inamovibile di una nutrita palude esclamativa che trova in sé una dissertazione estetica.

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L’euritmia è per gran parte nel respiro. Quando scrivo è un’altra voce a contare le sillabe. Non si affanna. È abituata. Salmi di donzelletta.

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Le voci che possiedono la penna di Pavese vogliono il dissotterramento. Gridando le voci si induriscono, sentenziano. Sono i morti. Ecco l’interesse per Edgar Lee Masters.

 

In questi Diari del transito Guida non può fare altro che scrivere. Non sa, oggi, quello che scriverà domani. La sua forza intransigente è la rinuncia a parole già lette e già morte: è la dolorosa volontà di resuscitarle, straziate e nuove, affilate dai soprassalti di un discorso ininterrotto. «Io sono uno che scrive e non ho mai capito cos’è la poesia. Per cui non so se ne ho composta o se ne compongo. Non lo saprò mai.»
Solo un autentico poeta non sa mai quello che fa. Questi Diari del transito, dal monologo al microracconto, dalla prosa lirica all’appunto teorico, sono pagine di un journal interiore dove riflessioni, ricordi, sogni, invenzioni, appaiono i mattoni comuni della stessa casa, frammenti portanti di un edificio sghembo e minaccioso, complesso e felice. L’io, volatile e trasversale, si trasfonde da una prosa all’altra, intonando i suoi temi ossessivi. Nel mio rapporto personale con questi frammenti, per come li ho visti venire alla luce, non posso che citare le parole di Bohumil Hrabàl: «Qualsiasi cosa abbia scritto è come se l’avesse scritta qualcun altro». La vera gioia dell vita è respirare un’aria che fu e sarà sempre respirata non solo da noi, oggi, ma dai vivi e dai morti che non conoscemmo e che non conosceremo.
Nell’ultimo frammneto dei Diari del transito Alfonso Guida scrive: «Lorenzo era, in ogni verso, lo scalino di una strada costruita con le corde». Parlando di Lorenzo Pittaluga, giovane poeta genovese che terminò volontariamente il suo destino terreno, Guida si inoltra dentro quello che è il vero viaggio del poeta: scalino di una scala oscillante, sempre tesa a un crocevia mancato, dove chi sale ha gli occhi “incolleriti dalla carcerarietà ma resta assetato di una meta ulteriore, libera dai “grimaldelli del giorno”, scolpita nel suo corpo vivente: «lo stile nasce dai cortocircuiti sintattici che danno scosse e rimbalzi alla mente stancata».
Il poeta è sempre in transito su un terreno che appare solido, ma le cui crepe sono tutte all’interno, nei cortocircuiti della visione.

Marco Ercolani

Dalla quarta di copertina

A. Guida, Diari del transito, Joker 2023.

Alfonso Guida (1973) vive a San Mauro Forte (Matera). Ha pubblicato Il dono dell’occhio (Poiesis, 2011), Irpinia (ivi, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), L’acqua al cervello è una foglia (Lietocolle, 2014), Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale, 2015), Luogo del sigillo (Fallone, 2016), Conversari (Round Midnight Edizioni, 2021), I penati (Gattogrigio, 2021), Il tassidermista (Terra d’Ulivi, 2022), Khnopff (Casa del libro, 2023).
Collabora alle riviste di cultura poetica e letteraria «Avamposto» e «Metaphorica» ed è presente nel blog “Scritture”.

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