Esperienze

Su “Notturno formale” di Stefano Bottero, di Germana Dragonieri

 

Che dire di sé? / Il braciere? / L’abbeveratoio? / E morire? // No: guardate le nostre mani.
(Thierry Metz, L’uomo che pende)

Ma la parola più importante del linguaggio ha un’unica lettera. è: È.
(Clarice Lispector, Acqua viva)

 

Più che di una lingua, Notturno formale è il tentativo di una voce – di una «parola senza parola» (Zumthor). La voce, infatti, ci rivela sempre qualcosa di anteriore alla parola che veicola: la memoria di un grido, di un esserci che è prima del linguaggio, prima ancora di noi stessi. Qualcosa che sta e che, come il corpo, «non significa niente» (p. 9).

Ridotta ai minimi termini attraverso un intenso lavoro di sottrazione del superfluo del simbolico, la parola poetica di Notturno formale si mostra infatti completamente disinteressata al significato: non significa niente.

Quanto in essa si verifica somiglia piuttosto a quella che ancora Zumthor ha chiamato, riferendosi alla natura paradossale della voce umana, «un’incongruità tra l’universo dei segni e le determinazioni concrete della materia»: ovvero un cortocircuito tra il senso e il corpo che, radicato nel mondo della materia – al di qua dell’universo dei segni – precede, neutralizza e in qualche modo delegittima in partenza ogni pretesa di significazione.

È proprio in ragione di quest’incongruità che quella di Stefano è una «parola che nega sé stessa» (p. 51); parola senza parola, lavata dalla patina sporca del significato e votata alla preghiera, al canto (lo stesso verso continua: «- lavatrici. preghiera»).

Di conseguenza, Notturno formale è del tutto privo di un livello virtuale, ulteriore di significato; non rimanda, in nessuna sua parte o parola, a nulla. È. Infiniti o infinitive con valore nominale e sostantivi isolati nel verso sono i suoi più marcati connotati sintattico-retorici: elementi verbali minimi, lasciati immobili – come «oggetti di vita quotidiana» (p. 16) – nella stanza vuota.

Mancano, in questa stanza buia e senza ombre, tanto lo slancio verticale del simbolo quanto quello orizzontale-analogico della metafora. Nella definizione di Blumenberg, la metafora assolve infatti una funzione di «cicatrizzazione» del tessuto cognitivo-percettivo. Ma a Stefano non interessa ricucire; gli interessa, piuttosto, squarciare ulteriormente la ferita cognitiva e corporale che lo porta alla poesia, quell’incongruità tra il corpo e il senso cui si è prima accennato – sentirne la carne e il dolore. Ricucire solo per ferirsi («tornare a cucire per ferirmi le dita», p. 45).

La sua è dunque un’operazione evidentemente, e dichiaratamente, autolesiva; da un lato perché sottrarre alla parola il senso, che è un attributo fondamentale dell’animale umano, comporta una sorta di mutilazione-mutazione di specie – quindi un incontro inquietante e traumatico con la propria animalità (cui sembrano alludere alcune delle foto di Nerina Toci presenti nel libro); dall’altro perché questo continuo nominare la realtà implica come uno scriversi addosso, un incidersi («e scrivi sulla milza l’intraducibile», p. 40), un aderire delle cose al proprio corpo-voce che ha qualcosa di innaturale e forse di mostruoso («vorrei avere più tempo / ingoiare i mobili che hai lasciato indietro», p. 36);

Diminuirsi, ferirsi, scriversi nel sangue: sottrarre allo spazio virtuale del significato per radicarsi il più possibile in quello, dolorosamente attuale, della carne e della materia. Ha dunque un portato meta-poetico il «venire / meno» cui fa riferimento una poesia (p. 15; e che coinvolge poi, non meno dolorosamente, un ben presente e metamorfico “tu” poetico: «verrai meno», p. 40); così come lo «sparire» (p. 20), lo «svuotarmi del tutto» (p. 39), e ancora lo «schiudersi – al vuoto che ti [nasce dentro / dopo aver dato di stomaco» (p. 27).

Scrivere è infatti, per Stefano, esattamente questo svuotamento; che è tuttavia «l’opposto della claustrofobia» (p. 27) perché fa spazio – toglie al linguaggio per far posto al «ritmo del respiro negli oggetti» (p. 38), alla voce di sé e delle cose. Per farla risuonare meglio, nel vuoto; per meglio sentirne la «risonanza illimitata a monte di sé stessa» (Vasse).

Più che sottrarre, o proprio sottraendo, questo svuotamento aggiunge dunque qualcosa (spazio, risonanza) alla realtà. Lo stesso ancoramento di questa poesia alla materia, lungi dal farla scadere in un asettico “materialismo”, fa invece spazio a qualcosa di sacro: a questo illimitato risuonare delle cose a monte della propria presenza visibile e tangibile.

Per una dinamica simile – secondo cui, semplificando, «si dice no per raggiungere il sì» (Metz) –, il buio di questo notturno si configura non già come l’assenza o la negazione di una luce, ma come la presenza, decisamente affermativa, del buio stesso. Un buio non dentro cui si vede (dal quale risulterebbe uno sprofondamento simbolico o metaforico, un trasparire, un aldilà del senso), ma un buio che si vede. Che non rimanda a nulla, non nasconde nulla; è. Come l’icona. E, ancora, come la voce, che si dice nel momento in cui dice – insieme contenuto e forma del suo dire.

Questo notturno è formale proprio perché non tende a un contenuto: lo incarna, portandolo nella sua stessa forma. E la parola qui nega sé stessa perché nega il proprio carattere di simulacro, il proprio affacciarsi su un altrove – e si allontana così dalla lingua («la distanza è lingua – al tuo posto dormono i tuoi nomi», p. 21).

L’altrove è (il) qui. Nella stanza buia dove il buio può vedersi. Dove esiste ciò che è – mentre ogni nome si fa «come prossimo alla cenere» (p. 49).


S. Bottero, Notturno formale, Industria & Letteratura 2023. Fotografie di Nerina Toci.

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