Esperienze

Su “Nature vuote” di Andrea Franzoni, di Stefano Bottero

 

La lettura di Nature vuote di Andrea Franzoni è un atto che si svolge lungo il corso di un perimetro. Il testo è costruito adottando il modo dei nodi – la ricerca del punto di relazione nella strettura di due componenti torte, codipendenti, per il cui il momento di passaggio è la ragione stessa della propria tensione. Di queste, la prima è la prassi costruttiva: la qualità di stratificazione formale costituisce una direttiva di movimento. La seconda, più morbida, è quella di un dettato filosofico non interiore – non emotivamente orientato. La voce è così direzionata da motivi non esperiti – non afferenti a una singolarità esperienziale ma, paradossalmente, motivati dall’atto di concettualizzazione come rapporto al reale. Nei versi di Franzoni trova posto non il racconto della chiusura, ma l’estasi dello schiudersi. Gli atti non di caccia e ricerca, ma di coabitazione con gli animali più strani tra quelli desiderati. Nella nota conclusiva, Diramazioni, firmata da Antonella Anedda, si legge:

Nature vuote è un lavoro sul resto e una riflessione sul costruire che comporta la necessità di non caricare la costruzione. Alle citazioni da Carson e da Emily Dickinson si uniscono i versi di Thierry Metz che sulla necessità di trattare la parola come mattone e muro ha edificato la grandezza della sua poesia. Il resto si nutre di perdita, si scarica, il vuoto presuppone un pieno.

La costruzione del testo, cerchio a cerchio, poggia sul riuso materiale ed estetico di voci prossime al poeta, perché a lui coesistenti. Così nella compresenza stilistica Franzoni radica la propria ricerca e il proprio atto di misura vocale: il pieno che sta oltre il vuoto è il volume di una cassa toracica di nancyana memoria, perché camera d’eco. I suoi versi non contengono allora testimonianza, rifiutando il cambiamento come categoria. Quasi una presa di posizione etica rispetto alla necessità di dire solo l’inutile. Per questo motivo è l’immediato della prassi verbale a fornire all’autore gli strumenti di equilibrio stilistico, metrico, di registro. Movimento della lingua privo di parallasse, di tempo, che determina l’incurvarsi della prospettiva fino all’annodamento. Non una rete calviniana – nessun edificio (metaforico e sociale) sopra questi versi, ma la nuda e cruda filigrana dello stringersi per raggiungere il foro: il punto dove il mantenimento stabile della prosodia si spezza. Di tutto questo, maestro è Penna – evocato a più riprese accanto al fantasma inquietante di Celan, e collocato come polo di una combinazione allucinatoria con Char, con il Baudelaire dell’ottantesimo spleen, Le goût du néant. Il testo va così oltre un orizzonte di aspettativa comune. Integra layout divergenti, estensioni di prosa e gabbie sillabiche millimetriche, senza effetti di rottura. Il tutto, coerente, di Nature vuote, rientra in una prospettiva gestuale-autoriale senza ambizioni di prolusione o di apertura. Il passaggio, la strettoia che costringe l’occhio ad avvicinarsi alla pagina, non motiva il dolore.

Pensando all’orizzonte del contemporaneo poetico italiano, la voce di Franzoni è difficilmente collocabile. Nel suo testo, un dispositivo agisce a disarticolare ciò che tocca la voce – straniante per «divieto di senso». Non un paradigma di ritrosia, il suo: tutto è rimasto alla luce del sole – nascosto in piena vista perché mai divergente o distante da sé. Un’esposizione, quasi (e ancora con Anedda), di oggetti, la cui disposizione non mira a formare significati nuovi per associazione. In altre parole: nessuna costellazione in Nature vuote, nessuna possibilità di lettura poematica o fluviale, ma di sedimentazione lacustre.

Dove hanno ragione i crampi, e poi l’annegamento, il poeta intravede la fenditura nel nodo. Dove si spegne il respiro, troppo umido per ripetersi, i corpi e le voci del circostante assumono forma e radice estetica – tendono a spegnersi: raggiungono, disposti (e vestiti a festa) il mutismo.

 

 

Il tempo è smarrito su questo tavolo.
Ricostruisco il tempo smarrito su questo tavolo.
Il tavolo non c’è su questo testo.
Molti errori di prospettiva. Me la prendo col tempo, ma l’assenza
è del tavolo.

*

Ad ogni silenzio perfetto,
             il suo cane.

*

Un senso invade
ciò che non sento
           e so
che per schiudersi
       si chiude.

*

Ripetimi chi sei,
dimmi perché non hai vissuto
e perché vaghi nel mio ricordo
spingendomi a te
come un segno caduto
nella parola che uso.

*

X

È durata poco la lotta.
e giustamente: perché lottare?

hai spalancato una porta
che nessuno può richiudere.

l’albero che piantammo quel giorno
era pieno di formiche.

La morte era passata.
La vita non se n’era accorta.

 

 

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