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“Io voglio avere la fermezza dell’azzurro. La bufera del niente”. Intervista a Livia Bonetti: tra poesia della memoria e teatro. A cura di Francesca Marica

 

Cara Livia, cominciamo con una tua breve presentazione. Dopo la laurea in Lettere Moderne in Statale a Milano, hai studiato didattica dell’arte al centro Pompidou di Parigi e oggi lavori come attrice e formatrice teatrale a Milano, città dove sei nata e dove vivi e dove ci siamo anche conosciute dopo il mio trasferimento di qualche anno fa. Hai fondato la Compagnia Teatro alla Coque e Bonetti/Radice e l’associazione culturale SestoSpazio. Ti dedichi alla scrittura teatrale e all’approfondimento del teatro sociale. “Cosa ci vuole a prendere fuoco” (Arcipelago Itaca, 2021) è il tuo primo libro di poesia. Come e quando ti sei avvicinata alla poesia e alla scrittura poetica?

Cara Francesca, è stranamente piuttosto facile rispondere a questa tua prima domanda. Mi sono avvicinata alla scrittura poetica attraverso dei laboratori teatrali. La poesia è frequentata in teatro, in un certo tipo di teatro soprattutto. Così, qualche anno fa, ho cominciato, in modo piuttosto oscuro e poco cosciente, a sentirmi attratta dal testo poetico, da alcuni autori in particolare. Poi hanno preso vita i primi tentativi di scrittura, totalmente artigiani, completamente sperimentali; cercavo in fin dei conti solo di provare a verificare cosa e se uscisse da me. E come. Con che forma. Poi ho iniziato un progetto a due: scrivevo a partire da immagini fotografiche che mi venivano mandate da un amico fotografo. Cercavo di non essere mai didascalica, quanto piuttosto aspettare finché quell’immagine non mi riconducesse a un’atmosfera, alla cristallizzazione di un momento, a una micro-narrazione sospesa. Poi sono nati i Quaderni delle Periferie, dopo aver conosciuto Lorenzo Cianchi, poeta e ormai carissimo amico. Abbiamo iniziato uno strano progetto: partire dagli stessi luoghi /ambienti/ temi osservati per poi rielaborarli, in modo completamente personale e libero in forma poetico-testuale. Con noi, Arianna Mainardi, ricercatrice in sociologia, che ci accompagnava nelle nostre peregrinazioni tra periferie geografiche e periferie sentimentali, tematizzando – da un punto di vista analitico e con gli strumenti di chi conosce la materia – quello che io e Lorenzo guardavamo con altri occhi. I testi che ci convincevano di più venivano poi stampati in piccoli quaderni, con l’aiuto di Valentina Bigaran, designer, che impaginava e raccoglieva tracce dei mondi osservati attraverso il frottage. Questa, in sintesi, la genesi.

Come sai, amo le trasversalità e apprezzo molto il tuo lavoro teatrale e il tuo impegno sul fronte del teatro sociale. Sono convinta che solo dalle contaminazioni tra diversi linguaggi artistici possano nascere esiti meritevoli di attenzione. I rapporti tra teatro e poesia non sono inusuali in Italia; potremmo fare diversi esempi ma mi interessa approfondire il tuo percorso. Nella tua pratica artistica, in che modo questi due momenti convivono e si influenzano reciprocamente?

Come ti dicevo poco sopra, certo teatro frequenta certa poesia. Nella mia pratica artistica, credo che la relazione tra parola poetica e parola teatrale viva più nel mio lavoro di scrittura che nella mia pratica di scena. Credo che la parola poetica, che nel mio caso è costruita molto per immagini, influenzi anche la mia scrittura teatrale, che altrettanto si nutre di visioni, o picchi di colore alternati a bianco-neri, o momenti lirici, flussi di coscienza, e talvolta astrazioni.

Il poeta e comune amico Lorenzo Cianchi ha firmato la postfazione del tuo libro “Cosa ci vuole a prendere fuoco”. Lorenzo, citando Bachelard, ha scritto che la tua poesia è figlia della capacità dell’esperienza di nominare esattamente i malumori e i benesseri della quotidianità. La tua attenzione agli accadimenti minuti, alle piccole manifestazioni del quotidiano, sembra non volerci risparmiare niente, è una scrittura quasi documentaristica, di derivazione fotografica. Trovi che questa definizione ti possa rappresentare?

Assolutamente sì. È come se ogni grande sentimento, talmente grande da non potersi dire, dovessi incanalarlo nella banalità del quotidiano per metterlo a fuoco. E forse anche perché detesto la retorica dei grandi sentimenti espressi per astrazioni, parole. Io sono una concretona, in fondo, ed è da lì, da piccoli bagliori del quotidiano, che mi sembra interessante lasciare emergere qualcosa. Viceversa, certe routine, certe stasi del quotidiano sono per me una grande fonte di prurito; in definitiva questa vita di cose piccole, di abbandoni, di stanze vuote, di lievi assenze tanto mi anima tanto mi innervosisce. È come se fosse il mio personale girone dantesco.

Il titolo del libro non contiene una domanda esplicita ma, di fatto, sembra porre un interrogativo ben preciso. E sembra porlo quell’interrogativo a una platea indifferenziata di uomini e donne. Lo sottolinea bene sempre Cianchi nella sua postfazione, anche se espressamente dichiara di volersi mantenere distante da ogni possibile operazione di ermeneutica linguistica del tuo lavoro. Cosa nasconde quel titolo? Da dove nasce? Conoscendoti, avrà una genesi curiosa. Ce la racconti?

Sicuramente la domanda è rivolta a donne e uomini appartenenti al grande insieme degli “stoppini brevi”, a tutti quelli cioè che si infiammano subito e forse, più di altri, patiscono la disillusione, proprio per questa caratteristica di alta infiammabilità. Il titolo nasce da un testo raccolto nel libro, e tutto sommato la risposta contenuta nella domanda Cosa ci vuole a prendere fuoco – anche se non esplicita – è quasi assiomatica: un fiammifero e uno stoppino breve. Molto poco, insomma, serve per prendere fuoco.

Il fuoco, elemento di rinascita, di trasformazione, di un divenire altro. Il fuoco come principio di tutte le cose, simbolo materiale di quell’universale contrasto, di quella discorde armonia di tutte le cose che è la legge suprema della realtà. Richiamando l’elemento fuoco nelle sue molte implicazioni, ho trovato la tua scrittura una forma di indagine quasi psicanalitica sul mondo individuale e collettivo contemporaneo. Quali tipi di autori e letture hanno influenzato la tua formazione di scrittrice?

Questa, invece, è una domanda complicata. Non tanto per la risposta, quanto perché sono una lettrice di pieni e vuoti, passo da fasi bulimiche ad assenze totali; passo dal teatro alla narrativa, amo i racconti, leggo pochissimi fumetti. Tra quelli che leggo, nei momenti cupi, Calvin e Hobbes. Di base, amo molto la narrativa americana, da John Fante a Foster Wallace a Alice Munro a Chimamanda Ngozi Adichie. È vero, ora che mi ci fai pensare, che sono tutti autori che integrano profondamente il contesto socio-culturale all’interno di narrazioni molto personali, come se un elemento fosse imprescindibile dall’altro.

Illustrazione di Anna Resmini

  

I tuoi rapporti con la fotografia. Barthes ha scritto che ogni fotografia è un certificato di presenza. La tua scrittura che ho definito quasi psicanalitica sembra percorrere la traiettoria individuata da Barthes. Ho avuto l’impressione leggendoti che le tue poesie volessero collezionare, o comunque mettere in salvo, una serie di certificati di presenza. Certificati di luoghi, di cose e di persone. Sbaglio?

Credo che tu abbia perfettamente azzeccato il punto. Buona parte dei miei testi sono abitati dalla mia famiglia, e con famiglia intendo anche la famiglia allargata degli amori attuali, passati o immaginari, oltre che da i miei familiari nel senso più canonico e consanguineo del termine. Certamente, c’è una profonda marcatura dell’assenza. La mia vita è stata indubbiamente segnata dalla morte inaspettata e violenta di mio padre. Va da sé che molti dei miei testi siano una sorta di disperato tentativo di riportarlo in vita.

Nel libro sono presenti alcuni disegni di Anna Resmini. Come nascono le tue collaborazioni artistiche con altri artisti e creativi? Dove possiamo trovare altri lavori di Anna? A quali prossimi progetti stai lavorando?

Dunque, le mie collaborazioni nascono nei modi più svariati. Attraverso amicizie, passaggi di contatti, casualità o sfrontatezza, come è stato per esempio con Lorenzo Cianchi. Con Anna Resmini, invece, collaboro da anni, abbiamo già fatto un libro insieme e esposto nel suo studio qualche anno fa. Ci lega una profonda amicizia. Devo dirti che la gran parte delle mie relazioni di lavoro partono o diventano di fatto anche rapporti intimi. Credo che mi sia quasi impossibile scindere i piani, nel male e nel bene di questa attitudine. Dove trovare altri lavori di Anna? Qui: https://www.annaresmini.com/ I miei prossimi progetti in questo momento sono legati al doppio binario della scrittura e dell’interpretazione, con l’idea di riuscire a fare confluire entrambe le cose in un solo progetto. Poi, dopo due anni e più di Covid, la mia speranza è che si riesca a recuperare parte del lavoro perduto e lasciato indietro. Se così non fosse, vedremo. È sempre tutto un grande enorme imperscrutabile. Vedremo.

Foto di copertina di Marilisa Cosello e Paolo Poce.

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