Trasfusioni

Enriqué Falcón, Tempo della collera e tempo della misericordia, a cura di Lorenzo Mari

 

Perché nascosti come bambini nell’androne della paura 
noi cantavamo con parole fessurate. 
Contro la collera del padre. 
Ci raccontavamo storie truculente 
a malapena percepibili tra il rumore della pioggia 
e l’alba, ogni volta che puntellata la nostra stessa preghiera, 
uscivamo a bloccare le strade delle auto blindate, 
quelle che vigilavano sui cannoni a rotaia: 
bambini, di certo, che si limitavano a spargere falsi segnali 
piccole esplosioni 
con le quali scompigliare i droni dell’alba, 
tagli di cavi suggeriti 
dalle canzoni che avevamo fessurato la notte precedente. 
Le Sorelle Maggiori ci dicevano:
“Cantate le canzoni nere della sovversione, bambini,
le vostre canzoni sovversive, pronte al sabotaggio”.

E noi cantavamo ogni notte
furia ritta in piedi, altrimenti dolore pieno di dubbi,
cantavamo
come uccelli nascosti nell’androne delle paure.
Contro la collera del padre.
E contro le auto blindate.

QUELLO CHE CANTAVAMO:

Tempo della collera e tempo della misericordia

Il demonio dalle ginocchia invertite
                       che parlò a Möling accarezza i suoi dadi
[ VIII / R ]        accanto ai muri
                       del primo cerchio di contenimento,
sotto la colonna a cassettoni
che sostiene il cielo notturno gioca
con gli aliossi dei nuovi dei,
quelli che furono applauditi nelle Guerre dell’Acqua
e davanti ai quali adesso si può di certo inginocchiare il demonio di Möling
perché la rovina ha già levato il suo calice,
gli uomini vivono soltanto per un giorno,
e non pesa abbastanza chi non implora perdono.
No
cade la pioggia sui contrafforti di Tuaim Imbir
e là non si ha paura della punta delle lance
ma il panico verso gli scambiatori
anni fa ha eretto il primo dei muri:
nessuno canta per la piccola casa
nessuno per la pace degli amanti,
nessun uomo è scambiato con un altro,
il prezzo della permuta resta intatto,
non ci sono giardini aperti per l’anima di Möling
perché la rovina non ha ancora levato il suo calice,
gli uomini maledicono i loro giorni,
c’è spazio soltanto per la specie                                                [Leibniz]
e non pesa abbastanza chi non implora perdono.

Tempo della collera e tempo della misericordia

A folate successive di tabacco
                        quella donna
[ XVII / N ]       quella donna pronunciava
                        le parole infiammabili soltanto
dopo gli incidenti di traffico e i disastri aerei.
Dalle impalcature semi-intossicate sui pinnacoli delle
chiese, –lei gridava
Dalle cinghie di trasmissione meno gremite –lei gridava
Dalle piazze a raggiera e dalle loro torri albine
Dai gabinetti della moltitudine, piena di debiti
Gridava
Dai capitavola delle mense clandestine
Dalle immediatezze dei muri di contenimento (dove turbinano i curiosi e i figli erranti)
Gridava
Dalle diatribe degli analisti dei dati
Dalle lingue straniere con le quali ancora parlano tra di loro i lupi
Lei gridava
Dai canyon che attraversano le città semi-affondate
Da ciascuna opera d’arte infine parassitaria
Dai contrafforti del prodigio che appariva in cielo
Per ogni uomo desolato
Per ogni donna desolata, –lei gridava
Gridava
Dalle stazioni di scambio che le felci occultano
Dalla media distanza che nutre ogni mano nelle trame dell’amore
Dalla vibrazione degli uccelli oltre il loro corpo ricusato
Gridava
Dagli sposalizi tra i libri e gli arcolai
Dalle vigilate frequenze multiple di Radio Alice
Dagli ossari scolpiti dalle Guerre Termiche
Lei gridava
Dalle pire di grafene nell’Attesa dell’Ajuar
Dalle notti aritmiche suonate di concerto con la lúa
Gridava
Dalle piramidi elettrice della Talia Silenziosa
Dalle tre lingue del serpente che sbadiglia nel Nehustan
Per ogni uomo desolato
Per ogni donna desolata, –lei gridava
Gridava
Dalle radici mestruali, sotto gli alberi-dai-dodici-frutti
Dalle gole degli assassinati per mano delle Polizie Arteriali
Lei gridava
Dallo stesso rituale superstizioso, dal culto della frigidità e del vuoto logoramento
Dalle sepolture di chi è stato abbattuto dai missili da crociera
Gridava
Dall’anima delle città, pronte alla desolazione e ai termo-mimetismi
Dagli interruttori delle antiche autostrade e dalle loro apoteosi di plastica, –lei gridava
gridava il suo ahoou logorato
gridava
di uomini che si mettono all’inseguimento e tossiscono,
di tutti quelli che ascoltarono e sentirono il suo freddo
il suo ahoou commestibile
per tutti i poveri insolenti,
per quelli che ancora si addentrano nelle città tranquille
e mai le attraversano in salvo.

Tempo della collera e tempo della misericordia

 

Porque escondidos como niños en el zaguán del miedo
nosotros cantábamos con palabras cuarteadas.
Contra la cólera del padre.
Nos narrábamos historias truculentas
apenas perceptibles entre el ruido de lluvia
y al amanecer, toda vez que apuntalada nuestra propia oración,
salíamos a bloquear las rutas de los carros blindados,
las que vigilaban los cañones de riel:
es cierto que niños tan solo esparciendo falsas señales
explosiones pequeñas
con que confundir a los drones de la madrugada,
cortes de cable sugeridos
por las canciones que habíamos cuarteado en la noche anterior.
Las Hermanas Mayores nos decían:
“Cantad negras canciones, niños,
vuestras canciones negras, listas para el sabotaje”.

Y nosotros cantábamos cada noche
furor en pie, si no dolor dudoso,
cantábamos
como pájaros escondidos en un zaguán de miedos.
Contra la cólera del padre.
Y contra los carros blindados.

LO QUE CANTÁBAMOS:

Tiempo de cólera y tiempo de misericordia

El demonio de rodillas inversas
                        que habló a Möling acaricia sus dados
[ VIII / R ]         junto a los muros
                        del primer círculo de contención,
bajo el palo artesonado
que sostiene el cielo nocturno juega
con las tabas de los nuevos dioses,
los que fueron aplaudidos en las Guerras del Agua
y ante los que ahora sí puede inclinarse el demonio de Möling
pues la ruina ya ha alzado su copa,
los hombres solo viven un día,
y no hay peso suficiente en quien pida perdón.
No
cae la lluvia en las estribaciones de Tuaim Inbir
ni se teme allí la punta de las lanzas
pero el pánico hacia los intercambiadores
levantó hace años el primero de los muros:
nadie canta por la casa pequeña
nadie por la paz de los amantes,
ningún hombre es cambiado por otro,
el precio del trueque permanece intacto,
no hay jardines abiertos para el alma de Möling
pues la ruina no ha alzado todavía su copa,
los hombres maldicen sus días,solo hay sitio para la especie                 [Leibniz]
y no pesa suficiente quien no implora perdón.

Tiempo de cólera y tiempo de misericordia

En sucesivas oleadas de tabaco
                        aquella mujer
[ XVII / N ]       aquella mujer pronunciaba
                        las palabras solamente inflamables
tras los accidentes de tráfico y los desastres aéreos.
Desde los andamios semintoxicados en los pináculos de las
iglesias, –ella clamaba
Desde las menos atestadas correas de alimentación, –ella clamaba
Desde las plazas radiadas y sus torres albinas
Desde los lavabos de la muchedumbre, repleta de deudas
Clamaba
Desde las cabeceras de los comedores clandestinos
Desde las inmediaciones de los muros de contención (donde se
arremolinan los curiosos y los hijos errantes)
Clamaba
Desde las contiendas de los analistas de datos
Desde las lenguas extranjeras con que aún se hablan los lobos
Ella clamaba
Desde los desfiladeros que cruzan las ciudades semihundidas
Desde cada pieza de arte finalmente parasitaria
Desde la estribación del portento que aparecía en el cielo
Por cada hombre baldío
Por cada mujer baldía, –ella clamaba
Clamaba
Desde las estaciones de tránsito que ocultan los helechos
Desde la media distancia que nutre toda mano en las tramas del amor
Desde la vibración de los pájaros tras su cuerpo rechazado
Clamaba
Desde los matrimonios entre libros y ruecas
Desde las vigiladas frecuencias múltiples de la Radio Aliche
Desde los osarios esculpidos por las Guerras Térmicas
Ella clamaba
Desde las piras de grafeno en la Espera del Ajuar
Desde las noches arrítmicas concertadas con lúa
Clamaba
Desde las pirámides eléctricas de Talía Silenciosa
Desde las tres lenguas de la serpiente que bosteza en Nejustán
Por cada hombre baldío
Por cada mujer baldía, –ella clamaba
Clamaba
Desde las raíces menstruales, bajo los árboles-de-doce-frutos
Desde las gargantas de los asesinados por las Policías Radiales
Ella clamaba
Desde el mismo ritual supersticioso, el culto a la frigidez y al desgaste vacío
Desde los sepelios de los abatidos por misiles de crucero
Clamaba
Desde el alma de las ciudades, listas para la desolación y los termocamuflajes
Desde los pulsadores de las autopistas antiguas y sus apoteosis de plástico, –ella
clamaba
clamaba su ahoou desgastado
clamaba
por los hombres que acechan y tosen,
para todos los que escucharon y sintieron su frío
su ahoou comestible
para cualquier pobre insolente,
para quienes aún se adentran en ciudades tranquilas
y jamás las atraviesan a salvo.

Tiempo de cólera y tiempo de misericordia


Enrique Falcón (Valencia, 1968) è una delle voci più importanti della poesia spagnola contemporanea: la sua produzione – già molto estesa, anche se largamente inedita in traduzione italiana, fatta eccezione per i testi inclusi nelle antologie “Voci dalla poesia spagnola contemporanea” (Sentieri Meridiani ed., 2009, a cura di Paola Laskaris) e “43 poeti per Ayotzinapa” (Arcoiris ed., 2016, a cura di Lucia Cupertino) – è stata spesso accostata alle categorie della “nuova poesia sociale” o della “poesia della coscienza critica”. Si tratta, tuttavia, di categorie alle quali Falcón imprime una svolta peculiare, non di rado virata verso i modi e le forme dell’epica, attraverso la frequente trasfigurazione poetica di un materiale già disponibile nella tradizione religiosa ebraico-cristiana, da un lato, e del pensiero marxista e libertario, dall’altro. Un altro autore di sicuro valore, nel panorama letterario di lingua spagnola, come il poeta uruguayano, di stanza in Messico, Eduardo Milán, ha dichiarato che “la poesia di Falcón crea i presupposti per cantare la condizione umana nella contemporaneità”. Ciò accade anche nell’ultima opera di Falcón, “Sílithus” (ed. La Oveja Roja, 2020), dal quale è tratta la sezione qui tradotta, a partire dai materiali pubblicati in rete dallo stesso autore, con l’avvertenza che alcuni riferimenti presenti nel testo – come ad esempio il nome proprio “Ajuar”, le “Polizie Arteriali” (riferite alla vigilanza delle arterie urbane), o ancora la “lúa” (apparentemente, una droga di nuova generazione) – sono elementi finzionali creati e utilizzati a più riprese dall’autore nel contesto del poema, mentre, naturalmente, Radio Alice è un riferimento alla nota esperienza culturale e politica della radio libera bolognese.

 

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