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Cosa troverai quando sceglierai il tempo/ qui corrono i cani ancora liberi e ingenui/ e respirano forte e scavano in terra/ dicono che avrai quegli occhi e finchè li avrai/ potrai sentire muoversi sul fondo del sangue. Intervista al poeta (artista e traduttore) Giuseppe Nava. A cura di Francesca Marica

  

Giuseppe, sono molto felice di ospitarti qui. Iniziamo con una tua breve presentazione. Dunque, sei nato a Lecco nel 1981 ma vivi a Trieste da anni.
Nel 2008 pubblichi Un passo indietro per l’editore Lietocolle. Nel 2009 vinci il premio De Palchi Raiziss. Il libro Esecuzioni vince nel 2012 il premio Mazzacurati-Russo e viene pubblicato dall’editore d’If l’anno successivo. Nel 2018 esce Nemontemi per Prufrock spa. Con la raccolta inedita, Le attese, hai recentemente vinto la seconda edizione del premio Lucini e il libro è stato pubblicato dall’editore Vydia nella collana Nereidi con la prefazione di Paolo Giovannetti. Nell’anno in corso, hai ancora in cantiere: la riedizione di Esecuzioni; la pubblicazione di una piccola raccolta dal titolo Guida e l’uscita di due libri d’arte in collaborazione con lo scultore Claudio Borghi (Lupi e Frasario). Che dire? Un buon periodo. Un ottimo periodo.
Non ho mai fatto mistero di apprezzare la tua versatilità e la tua trasversalità. Preparando questa intervista mi sono resa conto che le tue pubblicazioni, pur molto diverse l’una dall’altra, presentano spesso importanti tratti di comunanza. Uno su tutti, quello forse più lampante: la tua parola non è mai totalmente estranea alla cronaca intesa come narrazione/rielaborazione di accadimenti reali. In ogni tuo lavoro è presente un dato di realtà. In Esecuzioni racconti la prima guerra mondiale sposando il punto di vista dei giovani soldati condannati a morte; in Nemontemi ti richiami al calendario azteco e conduci una riflessione ampia sul concetto di tempo analizzandone anche le implicazioni a livello di comunità relazionale; ne Le attese trova ingresso una scrittura oracolare legata alla reinterpretazione dell’ I Ching che si alterna però ad una scrittura più descrittiva in prosa e ad alcuni passaggi dal tono sentenzial (penso soprattutto ai testi della sezione patibolari che nascono, come spieghi nella nota finale, dalla consultazione del Texas Deparment of Criminal Justice e delle dichiarazioni dei condannati a morte lì raccolti).
Se la poesia è un fatto, un risultato; ed è anche un fare, un costruire – come Luciano Anceschi convintamente sosteneva – vuoi spiegarci come nascono i tuoi progetti di scrittura? Come si “costruiscono”?

Ti ringrazio per la domanda, a me interessa sempre molto sapere come scrivono i poeti. Mi fa piacere tu abbia utilizzato questi termini, “costruzione”, “progetto”, perché è proprio il modo in cui mi piace pensare l’opera e il lavoro sul testo. In questo senso la citazione da Anceschi è senz’altro centrata: la poesia è anche quel “nel mentre” in cui essa stessa si fa, per cui scrittura e progetto dell’opera si influenzano e sviluppano in itinere, in un continuo confronto e lavorìo. Come ben noti, alla base dei miei lavori c’è sempre un dato di realtà, che può essere esperienziale o legato a un fatto storico o di “cronaca”; lo definirei un innesco, a cui l’opera potrà poi essere più o meno esplicitamente collegata. Quando non vengono da me stesso, cerco questi inneschi principalmente leggendo saggistica (di storia, antropologia, etnologia, e altro), in modo molto disordinato; ma subisco anche una forte attrazione per le storie weird, assurde, improbabili (nella lunga sequenza dei progetti mai terminati ci sono degli scritti sull’Ophiocordyceps Unilateralis, o su José Salvador Alvarenga… mia moglie si fa delle gran risate quando incappa nella cronologia delle mie ricerche). Il modo in cui dall’innesco poi procedo alla costruzione dell’opera può variare, ma cerco sempre di impostare un progetto più ampio del singolo testo; una struttura che faccia da guida e da confine, anche, mentre procedo nella scrittura. Poi non è che necessariamente finisco a scrivere di o su quell’argomento; può anche essere solo un’atmosfera che comprende i testi, uno sfondo, una traccia (è il caso per esempio di Nemontemi). Il passo più importante è stabilire la forma: non ho un modello di scrittura poetica privilegiato, un po’ perché mi annoio facilmente, ma soprattutto perché penso che l’oggetto della scrittura chiami un suo modo particolare in cui essere elaborato e scritto, piuttosto che essere piegato a una forma prestabilita. A volte la forma “viene da sé”, è spontanea, altre volte è frutto di ragionamento, o conseguenza del materiale impiegato per costruire il testo; a volte è tutto questo insieme. Mi rendo conto che questo modo di affrontare la composizione, così mirato, mi porta vantaggi e svantaggi: da un lato mi pare che i lavori guadagnino in compattezza e coerenza; dall’altro c’è spesso il rischio di perdita di forza del testo singolo senza una adeguata contestualizzazione. D’altronde, united we stand… 
Per fare qualche esempio, a partire dalle opere che hai citato: Esecuzioni è nato praticamente per gioco, da un testo trovato per caso in rete, che mi sono divertito a rielaborare individuandone le ricorrenze metriche e sonore. Solo in seguito, e grazie a un suggerimento di Gabriele Frasca, è venuta l’idea di farne un lavoro più esteso, con le stesse modalità. La sezione patibolari di Le attese, anch’essa un lavoro di rielaborazione, ha invece avuto una genesi più arbitraria, nel senso che ho espressamente cercato quei testi di partenza (le last statements dei condannati a morte del Texas), con l’intenzione di lavorarli in senso collagistico, ma non ritmico o metrico come era stato per i soldati. Su un altro versante, anche per Nemontemi vi è una componente di casualità nell’individuazione del “cappello” tematico (la particolarità del calendario azteco e la concezione del tempo) in concomitanza con la prima stesura di poesie in realtà molto personali; il tema, e le letture a esso collegate hanno poi influenzato la stesura successiva dei testi, e l’orientamento complessivo del lavoro. E ancora nella sezione oracolari (da Le attese), pur essendo anche quelle delle poesie molto legate a temi personali, c’è un ampio margine di intenzionalità, ovvero scrivere a partire dalla consultazione dell’I Ching e dai suoi responsi, concedersi volontariamente alle suggestioni e alle atmosfere del testo, messe in dialogo con quei temi. In particolare queste ultime poesie si configurano come rielaborazioni dei responsi del libro, ma il quesito relativo non è esplicitato; sono risposte senza domanda.

La parola poetica scritta non esaurisce il tuo bagaglio artistico.
Come molti degli artisti ospitati in questa rubrica, il tuo è un bagaglio ampio.
Nel 2014 hai partecipato alla realizzazione dell’antologia L’Italia a pezzi, edita da Gwynplaine. Hai frequentato la scena slam triestina collaborando all’organizzazione del Trieste International Poetry Slam. Sei musicista, suoni il basso, la chitarra e la batteria e hai fatto parte di gruppi grunge/alternative rock. Mi hai confessato che proprio in questo periodo, dopo un momento di lontananza dalla musica, ti stai occupando della sonorizzazione delle poesie di Esecuzioni. Ma non finisce qui. Crei e assembli collage. E poi c’è l’attività di traduzione. In questo senso il lavoro più organico che hai realizzato finora è la traduzione parziale di Testimony di Charles Reznikoff, pubblicato per estratto su Nazione Indiana mentre alcune tue manipolazioni de le Illuminazioni di Rimbaud sono state condivise su Utsanga. Ma ci sono altre tue traduzioni non pubblicate (o solo parzialmente) di David Jones e altri war poets, Christophe Tarkos, Eugène Savitzkaya, Jaques Izoard, solo per citare i lavori meno episodici. Come convivono tutte queste tue anime così diverse? E in che modo si influenzano? Esiste un dialogo tra loro?

Tutte queste istanze, percorsi, spinte, si intersecano e sviluppano in modi che nella maggior parte dei casi mi sfuggono. Il dialogo e le relazioni che intrattengono sono qualcosa di preconscio, che poi emerge a un tratto, al momento di una convergenza. Per esempio – e mi sento un po’ stupido ma è andata così – mi sono reso conto solo dopo anni che la scrittura collagistica e il collage propriamente detto (a cui comunque, a onor del vero, mi applico in modo molto discontinuo) sono in fondo la stessa cosa, fatta solo con materiali diversi. Non penso quindi che ci siano delle anime differenti; l’esigenza di esprimersi in qualche modo viene da una stessa fonte, sono diversi i modi in cui si estrinseca. Anzi, forse il fatto stesso di fare qualcosa di “artistico” significa scoprire questi collegamenti, queste correnti diverse che ci attraversano, come se fossimo un filtro.
Riguardo alla traduzione, in certi periodi è quasi una necessità. Un esercizio che ha i suoi effetti anche sul mio stesso scrivere. Generalmente non sono attirato da testi e autori in cui in qualche modo posso ritrovare una vicinanza, un’affinità, ma piuttosto cerco una distanza: non nel senso linguistico, o non solo strettamente formale, ma nel senso di quanto il testo riesce a portarmi “altrove”. Con Reznikoff, ne parleremo anche dopo, c’è sicuramente una convergenza rispetto alla questione delle fonti legali, ma il quadro storico e ambientale sugli Stati Uniti che ho scoperto lavorando su Testimony è stato una sorpresa. Mi piace anche dedicarmi a testi che non sono mai stati tradotti, ma appunto pochissime di queste cose sono state pubblicate – fondamentalmente per mia mancanza di intraprendenza…

Dal 2011 collabori con la rivista Charta Sporca, che ha ospitato diversi tuoi contributi, soprattutto prose e racconti. La rivista è anche un’associazione culturale e si occupa di organizzare incontri, presentazioni, letture. Dell’associazione tu sei il presidente. Puoi raccontarci qualcosa di più di questa realtà?
Il nome, Charta Sporca, lo avete preso in prestito da una poesia di Pier Paolo Pasolini e, nel manifesto della rivista, si legge: “siamo Charta da Cultura, Charta Bastarda – vogliamo sporcarci le mani, ogni pilatismo è bandito, né il politicamente corretto, ovunque annunciato e di cui si armano i pavidi, sarà di casa. Ognuno avrà il coraggio e la forza delle proprie idee”. Una precisa dichiarazioni di intenti? Un manifesto anche politico?

Charta Sporca nasce come rivista universitaria da un gruppo di studenti dell’Università di Trieste, nell’ambito delle proteste del 2010/11 contro la riforma Gelmini. Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì, c’è sicuramente una spinta politica alla base, nel senso di rimettere la cultura al centro di un’azione quotidiana. Ed è un atteggiamento che è stato portato avanti negli anni. Ai tempi non ero già più studente ma ho comunque seguito da vicino le vicende che hanno portato alla creazione del progetto. Che nel tempo si è slegato dall’ambito universitario, la rivista si è rinnovata, poi si è costituita l’associazione culturale, è stato implementato il sito… Anche il mio coinvolgimento è cresciuto, a prescindere dal ruolo come presidente, che è puramente formale. Negli anni abbiamo fatto diverse cose, mi piace ricordare qui un festival di letteratura giovanile nel 2017 (cui invitammo, tra gli altri, Giulia Caminito, Tommaso Di Dio, Claudia Durastanti) e il ciclo di incontri La scuola del sospetto che si tiene ogni estate, in luoghi informali come la pineta di Barcola a Trieste, e con modalità altrettanto informali. La rivista oggi esce una volta o due all’anno, a seconda delle disponibilità materiali ed economiche, e dal foglio di poche pagine in bianco e nero che era all’inizio è diventata un fascicolo corposo in cui gli articoli sono contrappuntati da illustrazioni di giovani artisti locali, sotto la coordinazione di Edoardo De Stalis, che si occupa del progetto grafico. Ogni numero è dedicato a un tema scelto dalla redazione: durante la pandemia è uscito il numero Apocalisse, ma il tema era stato scelto mesi prima! Invece il numero 2021 sarà dedicato al tema della festa, e stavolta non casualmente, poiché ricorre il decimo anniversario di Charta Sporca.

Mi colpisce la tua attenzione al mondo del diritto, o meglio, al tema della giustizia. In Esecuzioni e Le attese questa tua attenzione raggiunge livelli significativi e passa anche attraverso l’utilizzo di un linguaggio tecnico.
Esiste una specialità necessaria del linguaggio giuridico che è ben altra cosa dal linguaggio poetico, ammesso che ne esista uno universalmente condiviso.
Quella specialità necessaria si colloca a diversi livelli, lessicale e morfosintattico, mi viene da dire in prima battura. Ma è innegabile esista anche una specialità non necessaria, frutto di una libera scelta ed elaborazione critica di chi dice o scrive. Ti chiedo, e mi interessa moltissimo da addetta ai lavori, hai condotto degli studi sulla specificità del linguaggio giuridico? E ancora, da dove nasce questa tua attenzione per il tema della giustizia? Quanto le traduzioni di Charles Reznikoff hanno influito sui tuoi lavori, o viceversa, quanto i tuoi lavori ti hanno fatto avvicinare a Reznikoff?

Se ho condotto studi sul linguaggio giuridico: no, almeno non a un livello da poterne parlare decentemente con un addetto ai lavori… Ma capisco di cosa parli. Del linguaggio giuridico mi attirano fondamentalmente due cose: da un lato, la pretesa di esaustività e di esattezza (lo dice bene M. NourbeSe Philip, avvocata e poeta, il cui Zong! è uscito da poco in traduzione italiana: “Law and poetry both share an inexorable concern with language – the ‘right’ use of the ‘right’ words, phrases […]”). Dall’altro, il fatto che attraverso questo linguaggio si realizza un effetto sulla vita dell’uomo. La legge, e anche la sentenza giuridica, mettono in contatto la singola, minima persona con lo juggernaut dell’apparato statale: è già un confronto impari, oserei dire tra l’umano e il disumano… Nel momento in cui poi questo incontro ha a che fare con la morte, si crea un cortocircuito dirompente. Nei miei lavori c’è prevalentemente un aggancio diretto: le sentenze di Esecuzioni (che rientrano direi nella casistica della specialità non necessaria che dici, per via dello stile di inizio ‘900 dei redattori, molto letterario – non per niente da quelle sentenze ho estrapolato endecasillabi con facilità), e le glaciali “offender information” sui condannati a morte americani, che riportano in due righe gli eventi che hanno determinato la pena capitale. Ma anche laddove non sia realmente previsto un legame con le cose ultime, non ho trovato modo migliore per parlare di migranti che prendere estratti dai regolamenti europei dei trasporti (mi riferisco alla sezione 51.4789°N 0.2733°E, sempre in Le attese). 
Non so da dove venga questa mia attrazione. Come persona, una delle cose che odio di più sono le false accuse. E le storie relative, inevitabilmente, mi appassionano: all’università feci la tesina per l’esame di semiotica sul film Shawshank Redemption (in italiano Le ali della libertà, ahimé); e uno dei miei racconti preferiti è Michael Kohlaas di Heinrich von Kleist. Penso che una delle cose più frustranti che si possa vivere sia l’iniquità della legge; figurarsi quando questo coinvolge la libertà personale e persino la stessa vita. Questo discorso vale più che altro per Esecuzioni, direi. Invece in Le attese, con quel lavoro sulla pena capitale, mi premeva tra le altre cose mettere in rapporto diverse facce della violenza: quella dello stato che si arroga il diritto di mettere a morte una persona, e quella dei crimini che hanno portato alla condanna.
Quanto a Reznikoff, sono arrivato a lui grazie ad Andrea Raos (che ha tradotto il suo Holocaust), dopo aver scritto Esecuzioni. Parlando appunto di scritture di questo tipo, cioè a partire da documenti pre-esistenti, in particolare documenti legali, Andrea mi consigliò tra gli altri Testimony. Da parte mia c’era quindi già un interesse verso un certo tipo di lavoro. La lettura di Reznikoff poi ha avuto un’influenza più che altro indiretta, ma fondamentale, sulla questione della testimonianza, al tempo stesso indispensabile e impossibile. La scelta di un linguaggio settoriale/tecnico, così come in generale l’impiego di tecniche collagistiche, viene anche dall’impossibilità di poter dire con parole mie certe tematiche, di cui pure sento l’urgenza di dire qualcosa. Philippe Forest, riprendendo un passo di Michel Leiris, ha scritto “lo scrittore prende il toro della realtà sempre solo per l’ombra delle sue corna”. Ecco, mi pare che utilizzare testi già scritti, con lo scopo non di dire ma di mostrare, o eventualmente evidenziare, sia l’unico modo per avvicinarsi un poco di più all’ombra di quelle corna. Usare parole mie per parlare di prima guerra mondiale o di condannati texani, tentare di filtrare quelle esperienze in altro modo, sarebbe stato come un tentativo di truffa.   

Esecuzioni è, a mio giudizio, uno dei libri di poesia più significativi dell’ultimo decennio. Lo sai, ne abbiamo discusso anche in altre sedi. Nel 2021 è attesa una sua riedizione. Quali novità ci saranno, oltre alle sonorizzazioni dei testi di cui abbiamo fatto cenno nelle domande precedenti?
Puoi raccontarci qualcosa di più di questo prossimo progetto?
Il regista Peter Jackson ha condotto nel 2018 un’operazione simile alla tua. Accedendo agli archivi della BBC e dell’Imperial War Museum di Londra, e rimettendo mano a filmati e audio d’archivio vecchi più di un secolo, Jackson ha omaggiato gli uomini che hanno combattuto la prima grande guerra, cercando di raccontare l’atteggiamento dei giovani soldati nei confronti del conflitto. “They shall not grow old”, è il titolo del documentario. Lo hai visto? Che tipo di ricerche hai condotto tu per arrivare alla forma di Esecuzioni come la conosciamo noi?

Ti ringrazio delle belle parole per Esecuzioni. Per questa nuova edizione non ci saranno grandi variazioni rispetto alla prima, almeno per quanto riguarda il testo. La novità sarà invece costituita da un ampliamento dell’opera in senso multimediale. I testi saranno accompagnati da una sonorizzazione, di cui mi occupo direttamente, e da delle elaborazioni video. Questo progetto è nato dalla coincidenza tra la chiusura della casa editrice d’If (e relativo decadimento dei diritti sull’opera) e l’ideazione della piattaforma Howphelia da parte di Ophelia Borghesan (ovvero Luca Rizzatello e Angela Grasso). Si tratta di una modalità molto innovativa di fruizione di contenuti ibridi, appunto testuali, sonori, video, che possono includere anche il formato “libro”, ma non in quanto forma principale.
Per Esecuzioni ho lavorato quasi esclusivamente su fonti scritte, che reperivo da volumi, libri, riviste, spogli, ricerche documentali d’archivio. Feci delle ricerche anche presso l’Archivio di Roma, anche se da quel versante trovai delle difficoltà: a meno di poter effettuare uno spoglio sistematico (cosa che per motivi di tempo e risorse non mi era possibile fare), era complicato giungere ai singoli documenti, poiché negli anni ci sono state riorganizzazioni delle segnature dei faldoni, e le collocazioni spesso non corrispondevano a quelle citate nei libri. Cioè era facile ritrovarsi tra le mani documenti completamente diversi. In ogni caso, ai tempi lavoravo nella biblioteca universitaria del dipartimento di Storia, il che mi ha agevolato il reperimento di molte delle fonti. La lettera del generale Graziani che è diventata l’ispettore generale del movimento di sgombero l’ho presa per esempio da un Corriere della Sera del 1919. Poi, accanto al lavoro sulle fonti scritte, ho cercato di calarmi il più possibile nel mood con film, documentari, visite ai musei dedicati, ai luoghi della guerra qui sul Carso, o in Francia del nord… E ovviamente tante letture, memorialistica, saggi, romanzi. Anche poesia, sì. Ho scoperto per esempio che a differenza nostra gli inglesi hanno tantissime antologie di war poets. Ho passato così due anni, credo. Poi mi sono un po’ disintossicato, motivo per cui il film di Jackson devo ancora vederlo (ma mi interessa molto!).

In una nota a Nemontemi apparsa qualche anno fa su Poesia del Nostro Tempo, il poeta e critico Davide Castiglione, ha definito sperimentale la tua scrittura facendo riferimento ai meccanismi di produzione del testo per “gemmazione interna”; non ravvisando invece alcuna procedura radicale di dissoluzione del senso e della struttura più tipica. Ti ritieni un autore “sperimentale”? Credi che la contrapposizione poesia lirica/poesia sperimentale abbia ancora oggi una validità e una ragion d’essere?
Cosa vuole dire essere sperimentali oggi?

Non ho mai pensato a me stesso come un autore “sperimentale”, benché mi renda conto che certe strategie compositive che uso possono essere ascritte a quella categoria (i collage, le riscritture attraverso i traduttori online, le poesie sought o found). Anni fa, quando iniziavo a muovere i primi passi sull’accidentato terreno della poesia, tendevo a separare le cose, le scritture “tradizionali” da un lato e gli “esperimenti” dall’altro. Col tempo mi sono reso conto di quanto fosse limitante questa visione manichea. Soprattutto, presupponeva di dover stabilire una poesia di serie A, una scrittura che fosse “più poesia” delle altre, cosa a cui ho sempre guardato con diffidenza. La contrapposizione lirica/sperimentale (o “di ricerca”) è ancora radicata, eppure penso che sia già superata dalle complessità e dalle problematicità della lingua della poesia di oggi. Per me, non si tratta tanto di essere dunque più o meno sperimentali ma di essere piuttosto aperti alle varie insorgenze attraverso cui il testo poetico può palesarsi, senza preclusioni di sorta.

Una domanda sul libro che ha vinto la recente edizione del premio Lucini, Le attese, libro che ho apprezzato in anteprima facendo parte della giuria del premio. Come molti dei tuoi precedenti lavori, anche Le attese, presenta una composizione spuria. Nella prima domanda, abbiamo fatto cenno alla sezione patibolari ma ne esiste anche una, oracolari, che nasce dalla reinterpretazione del responso de I Ching; e un’altra, ipotesi non verificate, che invece contiene brevi prose tutte dal tono dubitativo (forse, si legge in esordio di ognuna di quelle). In rodrigo de triana i versi in corsivo sono trascrizioni del diario di bordo di Cristoforo Colombo, mentre in una storia riporti le ultime dichiarazioni di vari condannati a morte come se fosse un unico flusso ininterrotto. All’interno di questa mobile e variegata struttura, il libro rivela una compattezza invidiabile; una compattezza tale da garantire una comune struttura significante a ogni testo. Eppure la sensazione è che ci sia stata nella creazione del libro un montaggio simile a quello che caratterizza i collage: l’immagine del collage custodisce la differenza, custodisce l’alterità, fa vivere elementi diversi, all’interno della cornice simbolica del quadro. Qual è la cornice simbolica del libro?

Per fare un parallelismo musicale, Le attese è un po’ come un concept album. La tua sensazione è corretta: vi è una cornice che non solo racchiude i testi ma che anche ha influito sulla loro stesura. Banalmente, è il concetto di attesa espresso nel titolo. L’attesa come un particolare clima dell’esistenza; un tempo interstiziale che non è davvero una pausa, o una sospensione, ma che piuttosto subisce un cambiamento delle condizioni abituali, mentre si aspetta un evento. Tra il 2018 e il 2019 mi sono ritrovato con alcuni scritti diversi che avevano tutti a che fare con questo tema dell’attesa, ma in quelle occasioni in cui questo interstizio è esteso, stirato nel tempo fino a diventare il tempo stesso: l’attesa di un figlio; l’attesa di raggiungere una terra oltre l’oceano (sempre che ci sia); il desiderio di conoscere il futuro; e così via. Mi sono avvicinato ai condannati a morte chiedendomi cosa mai può dire una persona che da mesi, anni, sta aspettando il giorno in cui verrà ucciso. Questa cornice mi ha permesso di radunare materiali formalmente eterogenei, mantenendone l’identità propria ma collocandoli all’interno di un discorso, o di un percorso. Sono soddisfatto di questo, perché ho così potuto mettere insieme diversi tratti del mio scrivere  altrimenti difficilmente conciliabili.

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