Esperienze

Papaveri dell’avvenire in Afghanistan

 

Il sole brutale e prepotente di questa seconda estate pandemica ha infine lasciato la sua presa, il sole narcotizzante che nell’abbaglio della luce di agosto sembra ogni volta annullare le singole volontà e stringerle in un’immobilità agitata e interrotta solo da sogni violenti. È il tempo della vacanza, in cui il vacuum seduce e trattiene, offrendo papaveri di assenza e oblio. Sfinito dalla febbre del giorno, anche il discorso “delira”, barcolla e esce da ogni solco (lira) tracciato come la bestia indolente che scarta. Slegate e soltanto il cielo notturno a offrirgli un limite però abissale, le parole si smarriscono e infine si dissolvono negli invisibili vapori vacui: appena qualche calcolata oscenità, con il suo sfrontato richiamo animale, sembra volersi opporre quasi ingenuamente al totale sgomento. Non basta tuttavia a impedire che si insinui un sentimento di vuoto, che qualunque forma prenda – spleen, accidia, ozio, attesa senza oggetto, sensazione di insignificanza, assenza di emozioni, paralisi del sentire – sembra comunque assomigliare a una piaga purulenta, che con il suo liquido penetra in tutti gli spazi dell’anima, rendendoli deserti sia di piaceri che di dispiaceri.

Il vuoto tuttavia è nel discorso come sua muta condizione, nell’uomo come nostalgia di un assente o di qualcosa di perduto, nell’universo fisico e qui più significativamente nella meccanica quantistica, che ne offre una versione per così dire non meno intimista, definendolo infatti come il mezzo in cui una particella interagisce con se stessa. C’è poi il vuoto negli spazi della contesa del potere politico, che non tollera che resti a lungo tale, quel vuoto di intelligenza, volontà, attenzione, azione e lungimiranza che attira sogni violenti e desta vecchie e nuove paure …

Il risveglio dal sonnolento vuoto agostano 2021, assuefatto alla conta dei positivi covid-19 come a una recita del rosario, è stato provocato proprio dal primo paese al mondo nella coltivazione del papavero sonnifero e nella produzione dell’oppio. Vent’anni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, trasformando il ritiro degli Stati Uniti in una disfatta, tragicamente simboleggiata dal terribile attacco all’aeroporto di Kabul a opera dello Stato Islamico del Khorasan, altrimenti conosciuto come Isis K. Seppure annunciato da molti anni, il ritiro delle ultime forze americane e della quasi totalità degli occidentali presenti in Afghanistan – dopo la repentina caduta (e fuga) del governo corrotto appoggiato dagli americani – non solo ha consegnato l’immagine di una débâcle se non di una pesante umiliazione, ma ha fornito anche l’indicazione di una svolta congiunturale nella storia globale. Come sempre accade nel difficile sforzo di analisi del presente, si sono prontamente cercati i passaggi storici a cui assimilare l’evento per favorirne la comprensione o dettarne la lettura: così la vittoria dei talebani è stata paragonata al fiasco della spedizione di Suez che mise fine all’autonomia strategica degli europei nel 1956 o alla caduta dell’America imperiale a Saigon nel 1975. In ogni caso, il ritiro dall’Afghanistan è per molti osservatori solo l’ultimo segno di quella disgregazione dell’impero americano già in atto da molto tempo (dovuto forse più a cause interne che internazionali) e che non potrà essere purtroppo un processo pacifico. Infatti, il disimpegno delle forze militari lascia un vuoto che altre potenze straniere già si affrettano a riempire. Un vuoto, d’altra parte, che sembra rivelarsi come l’effetto dell’occasione di pace sprecata dagli Usa, poiché la loro motivazione e azione in questi ultimi vent’anni è apparsa nell’opinione di molti afghani[1] dettata in fondo più dalla ricerca di vendetta per l’11 settembre.

Se questo è vero, è ancor più probabile che il ritorno al potere dei talebani significherà per 40 milioni di abitanti il ritorno al terrore del 1996-2001 e che il paese diventerà di nuovo un focolaio di terrorismo internazionale, a causa della grande diaspora di jihadisti che si sono arruolati con i talebani, con conseguenze devastanti per il Medio Oriente e l’Europa. A dispetto delle dichiarazioni conciliatrici e rassicuranti o del far mostra di un certo pragmatismo, è impossibile alla vista dei talebani non tornare con la memoria alle immagini dell’esplosione che distrusse i Buddha di Bamiyan, delle donne segregate nei burka, sottratte all’istruzione e a qualsiasi forma di vita sociale che non fosse il controllo di qualche maschio della famiglia, e poi ancora alle esecuzioni, torture, impiccagioni, lapidazioni e altri supplizi che si consumarono pubblicamente nello stadio di Kabul. Con l’applicazione della sharia torneranno con molto probabilità le squadre di “polizia religiosa”, parte di quell’organizzazione allora nota come “Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”. Vizio e virtù: due parole che se tornassero ad essere invocate basterebbero da sole a far temere nuovamente l’assassinio delle libertà e lo scorrere a terra di nuovo sangue. Resta certo difficile rispondere alla domanda fondamentale su quale sarà il comportamento dei talebani di oggi: per evitare l’intervento della comunità internazionale, altrimenti indifferente, potrebbero addirittura cercare di non offrire rifugio a gruppi terroristici che compiono attacchi in Occidente, mentre sul fronte interno, per la propria affermazione e stabilità, potrebbero respingere ogni forma di moderatismo e obbedire, per segrete e crudeli affinità, alla lezione rivoluzionaria del “virtuosissimo” Robespierre del Danton’s Tod di Büchner: «chi fa una rivoluzione a metà si scava da sé la propria fossa. La buona società non è ancora morta, la sana forza popolare si deve mettere al posto di questa classe rovinata in ogni senso. Il vizio deve essere punito, la virtù deve dominare per mezzo del terrore». Dall’altra parte, qui in Europa, forse invano attenderemo levarsi la voce di Danton che ricorda, non solo a coloro che si dichiarano “puri”, che la «coscienza è uno specchio di fronte al quale si tormenta una scimmia».

Rossana Lista

[1] (cfr. Bilal Sarwary, Corriere della sera, 29 agosto)

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