Esperienze

Da nessuna parte mai. Nell’atelier di Rostia Kunovsky. Di Domenico Brancale

 

Da nessuna parte mai

Nell’atelier di Rostia Kunovsky

 

Seguire le orme degli scrittori che amiamo è quanto di più naturale si possa fare sul cammino della nostra esistenza. Trovare le nostre è necessario.

Quando Maria Nadotti mi ha parlato per la prima volta del pittore ceco Rostia Kunovsky, della sua amicizia con John Berger, e mi ha invitato a visitare il suo studio a Châtenay-Malabray, nella banlieue parigina, a due passi dal parco di quelle che furono le dimore di François-René de Chateaubriand e Jean Fautrier, ero molto curioso. In qualche modo sapevo che avrei seguito le orme di Berger. Ma dal primo momento in cui ho fatto la conoscenza di Kunovsky, che ci aspettava con la sua Peugeot 206 fuori dalla stazione RER Robinson, e ho messo piede nel suo studio ho ritrovato le mie orme.

Entrare nello studio di un artista è vivere la soglia della creazione. Ci viene concessa la grazia. Si entra per uscire fuori dalla porta delle tele. Ogni oggetto fibrilla. L’aria è un agglomerato di atomi in preda alle forze più indistinte dell’eccitazione. In un atelier si fa sempre l’amore. Non c’è museo che possa darci tali emozioni. Ogni qualvolta ho avuto la possibilità di visitare un atelier ne sono uscito completamente bagnato.

Nello studio di un artista vige una regola segreta: non chiedere. Provo a osservare la regola, sebbene delle domande cominciano ad affiorare nei pensieri. In una posizione privilegiata, come è quella che viene concessa a chi guarda dietro le quinte, è facile cadere nella trappola. Forse la cosa migliore è abbandonarsi, arrendersi alla bellezza dell’incomprensibile. Farsi investire dal dono.

Saliamo attraverso una piccola scala che ci porta in una stanza dove lo spazio e il tempo sembrano abbiano ceduto il passo all’immaginazione. Qui dentro le unità di misure convenzionali perdono il loro carattere. Le pareti si dispongono sotto i piedi. Orizzontale e verticale si scambiano il posto. Kunovsky srotola le sue opere dentro i miei occhi. Dal nulla s’innalzano paesaggi. Per un istante provo a camminare. Ci sono finestre che mi guardano. Sono dentro una sorta di favelas di lettere dell’alfabeto (Fenêtre Lettres) e tronchi di rami (from Nowhere) che riscrivono la geografia di luoghi sconosciuti. Ma né le lettere, né i rami intralciano il cammino. Non si lasciano pronunciare, ma si pronunciano nella nostra vita.

  

Fenêtres Lettres, tecnica mista su carta (150 x 220 cm), 2013

    

Prima di chiudere gli occhi fisso ancora una volta queste lettere animate. Mi chiedo se sono frammenti di una lingua non ancora abitata o ciò che rimane della voce. Forse sono i sentieri del labirinto di tante esistenze.

E i colori, i colori sono vere e proprie presenze, espressioni di una virtù nascosta. I neri, i gialli, i verdi, gli arancioni, oasi delle nostre attese. Ho l’impressione che non siano lì per dire una tonalità o riempire lo spazio, ma per dare alla luce un nuovo nome.

  

Fenêtres Lettres, tecnica mista su tela (150 x 100 cm), 2013

  

A un certo punto vedo Kunovsky strappare un pezzo di carta da uno dei grandi fogli che poco prima aveva pinzato su un’altra tela. Dietro riappare un altro immobile, come se nel frattempo la vita fosse continuata al di là delle apparenze. Chi mi dice che dietro una di quelle finestre non ci sia qualcuno che aspetta di essere trovato? Un sopravvissuto a tutte le apparenze.

In alcune carte del 2017 gli edifici sembrano siano stati cancellati da una pennellata di nebbia. Non riesco a scorgere le finestre. Ad un tratto la città è svanita, come coperta da un sogno di neve. Tronchi di rami continuano a sporgersi sulla tela. Chi non ha mai pensato vedendo queste tele ai propri arti! Là dove si distende un ramo cresce il nostro desiderio.

  

from Nowhere, tecnica mista su carta (70 x 100 cm), 2017

  

Forse non era la stagione giusta. Si trattava di aspettare il mese più crudele. Quando sui rami sono comparse le foglie. Le voci delle città sommerse. Per un attimo sembra che il mio respiro le abbia agitate. C’è un suono che riempie la vista di colui che tace. Non ha volto ma è infinito.

Questo gioco di foglie, l’oscillazione dei rami indicano la buona direzione, il verso che lo sguardo deve seguire. L’estasi, come uscita da se stessi. Vivere fuori di sé, di questo si fa esperienza dinanzi a un quadro. Prima di rientrare nella nostra dimora passerà del tempo. Forse passeremo noi. Forse semplicemente non saremo più noi. Saremo il ricordo di quella visione.

  

from Nowhere, tecnica mista su tela (130 x 130 cm), 2020

  

Di tanto in tanto Rostia Kunovsky mi spedisce via whatsapp delle foto dell’atelier e dei suoi lavori. In una tela mi pare di riconoscere quel pezzo di pittura che quel giorno aveva strappato da un altro lavoro, proprio dinanzi a me. E capisco che quel sopravvissuto è proprio lui. L’artista contro tutte le attese. Contro le dinamiche della ruota dentata del mondo dell’arte. Contro il pensiero desolato. L’artista che cerca di rinsaldare il legame infranto fra uomo e natura. Che ci restituisce il mistero di cui abbiamo bisogno per credere ancora nell’altro. Credere è amare ancora.

Come nasce un dipinto? Ritorna. E questo ritornare è estorcere al tempo un’immagine che comincia sempre. Se potessimo contare le volte in cui la mano di Kunovsky ritorna sulla tela, sulla carta, o quando incide le lastre di rame sarebbe come contare le stelle. Il gesto dell’artista ha un segno infinito.

  

from Nowhere, tecnica mista su carta (105 x 150 cm), 2020

  

In un angolo finalmente un foglio appeso dove si staglia l’autoritratto di Kunovsky. Tra l’autoritratto e il volto che conosciamo rimane sempre qualcosa di indicibile. In questo interstizio, in questa sorta di pausa tra la vista e il dipinto, si trova la verità del volto. La somma di tutti i fotogrammi esposti nella nostra memoria. Per finire gli occhi nel silenzio della vista, per guardare oltre il buio della nostra scatola cranica.

Chiudo di nuovo gli occhi. Li chiudo in ogni parola che pronuncio. Le macchie di colore che chiamiamo fosfeni, secondo alcuni, sono un fenomeno imputabile alla luce che proviene dai nostri occhi. Secondo me, sono le impronte dell’ultima tela Senza titolo che m’incanta.

Piccola parentesi. In che lingua parliamo? All’apparenza. Al suono potrebbe dirsi il francese. Potrebbe darsi. Ma della lingua non facciamo parola. Siamo diventati il suo silenzio.

  

Sans titre, tecnica mista su carta (85 x 63 cm), 2021

 

   

Nulle part jamais 

Dans l’atelier de Rostia Kunovsky

 

Aller sur les traces des écrivains que nous aimons est la chose la plus naturelle que nous puissions faire sur le chemin de notre vie. Trouver les nôtres est nécessaire.

Lorsque Maria Nadotti m’a parlé pour la première fois du peintre tchèque Rostia Kunovsky, de son amitié avec John Berger, et m’a invité à visiter son atelier à Châtenay-Malabry, dans la banlieue parisienne, à deux pas du parc où furent les demeures de François-René de Chateaubriand et Jean Fautrier, j’ai été saisi de curiosité. En quelque sorte, je savais que j’irais sur les traces de Berger. Mais dès que j’ai fait connaissance de Kunovsky et mis un pied dans son atelier, j’ai retrouvé les miennes.

Entrer dans l’atelier d’un artiste c’est vivre le seuil de la création. La grâce nous est accordée. On entre pour sortir par les portes des toiles. Fibrillation sur chaque chose. L’air est un agglomérat d’atomes en proie aux forces d’une insondable excitation. Dans un atelier on fait toujours l’amour. Aucun musée ne peut nous offrir autant d’émotions. Chaque fois que j’ai eu la possibilité de visiter un atelier j’en suis sorti inondé.

Dans l’atelier d’un artiste une règle secrète prévaut : ne pas demander. J’essaie d’observer la règle, même si des questions commencent à affleurer. Dans une position privilégiée, comme celle où il nous est accordé d’entrer dans les coulisses, il est facile de tomber dans le piège. Peut-être que le mieux est de s’abandonner à la beauté de l’incompréhensible. De se laisser investir par le don.   

Nous montons le long d’un petit escalier qui nous amène dans une pièce où l’espace et le temps semblent avoir cédé le pas à l’imagination. Là, les unités de mesure conventionnelles perdent leur identité. Les murs sont sous les pieds. Verticales et horizontales échangent leur place. Kunovsky déroule ses œuvres sous mes yeux. Du néant apparaissent des paysages. Pendant un instant, j’essaie de marcher. Il y a des fenêtres qui me regardent. Je suis à l’intérieur d’une sorte de favela de lettres de l’alphabet (Fenêtres Lettres), de corps de branches (from Nowhere) qui réécrivent la géographie de lieux inconnus. Mais ni les lettres ni les branches ne se mettent en travers du chemin. Elles ne se laissent pas prononcer mais elles se prononcent dans notre vie.

Avant de fermer les yeux je fixe encore une fois ces lettres animées. Je me demande si elles sont des fragments d’une langue encore inhabitée ou ce qui reste de la voix. Peut-être sont-elles les sentiers du labyrinthe de tant d’existences.

Et les couleurs, les couleurs sont de vraies et authentiques présences, expressions d’une vertu cachée. Le noir, le jaune, le vert, l’orange, oasis de nos attentes. J’ai l’impression qu’elles ne sont pas là pour donner une tonalité ou combler l’espace, mais pour donner à la lumière un nouveau nom.

Au bout d’un moment, je vois Kunovsky déchirer un lambeau de l’une des grandes feuilles qu’il venait d’agrafer sur une autre toile. Au dos réapparaît un autre édifice, comme si pendant ce temps la vie avait continué au-delà des apparences. Qui me dit que derrière une de ces fenêtres il n’y a pas quelqu’un qui attend qu’on le trouve ? Un survivant de toutes les apparences.

Dans certaines feuilles de 2017 les édifices semblent avoir été effacés par un trait de brouillard. Je ne réussis pas à discerner les fenêtres. Soudain la ville s’est évaporée, comme recouverte d’un rêve de neige. Les corps d’arbres continuent à se pencher sur la toile. Qui n’a jamais pensé à ses propres membres en regardant ces toiles ? Là où se tend une branche croît notre désir.

Peut-être n’était-ce pas la bonne saison. Il fallait attendre le mois plus cruel. Quand sur les branches sont apparues les feuilles. Les voix des villes englouties. Pendant un instant on dirait que mon souffle les a fait frissonner.  Il y a un son qui envahit la vue de celui qui se tait. Il est sans visage mais il est infini.

Ce jeu des feuilles et l’oscillation des branches indiquent la bonne direction, celle que le regard doit suivre. L’extase, comme sortie de soi. Vivre hors de soi, en faire l’expérience face à un tableau. Du temps passera avant le retour dans notre demeure. Peut-être est-ce nous qui passerons. Peut-être que tout simplement, nous ne serons plus nous. Nous serons le souvenir de cette vision.

De temps en temps, Rostia Kunovsky m’expédie par WhatsApp des photos de l’atelier et de ses travaux. Sur une toile il me semble reconnaître ce morceau de peinture qu’il avait arraché à un autre tableau, juste devant moi. Et je comprends que ce survivant est vraiment lui. L’artiste contre toute attente. Contre la dynamique de la roue dentée du monde de l’art. Contre une pensée désolée. L’artiste qui cherche à renouer le lien brisé entre l’homme et la nature. Qui nous restitue le mystère dont nous avons besoin pour croire encore à l’autre. Croire est aimer encore.

Comment naît une peinture ? Elle revient. Et ce retour consiste à extorquer au temps une image qui est un éternel commencement. Si nous pouvions compter combien de fois la main de Kunovsky revient sur la toile, sur le papier, ou fait une incision sur les plaques de cuivre, ce serait comme compter les étoiles. Le geste de l’artiste laisse une trace infinie.

Finalement, dans un coin s’affiche un feuillet où apparaît l’autoportrait de Kunovsky. Entre l’autoportrait et le visage que nous connaissons, il reste toujours quelque chose d’indicible. Dans cet interstice, dans cette sorte de pause entre la vision et la peinture, se trouve la vérité du visage. La somme de tous les photogrammes exposés dans notre mémoire. Pour finir les yeux dans le silence de la vue, pour regarder au-delà de la nuit de notre scatola cranica.

Je ferme à nouveau les yeux. Je les ferme dans chaque mot que je prononce. Les taches de couleurs que nous appelons des phosphènes seraient un phénomène imputable à la lumière qui provient de nos yeux. Selon moi, ce sont les empreintes de la dernière toile Senza titolo – qui m’enchante. 

Petite parenthèse. Dans quelle langue parlons-nous ? Apparemment. Au son, peut-être le français. Il se pourrait. Mais pas de mots pour dire la langue. Nous sommes devenus son silence.

 

(Traduction de l’italien par Micha Venaille)

  


http://www.kunovsky.com

Il 4, 5 e 6 giugno sarà possibile ammirare gli ultimi lavori nell’esposizione Rostia Kunovsky Peintures Dessins Gravures a Parigi in rue du Docteur-Potain, 30 – 75019 Paris (interphone: Atelier) dalle 14 alle 21, o su appuntamento con l’artista alla mail: kunovsky@free.fr e per telefono al (0033) 06 51 25 27 28.

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