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Intervista a Nicoletta Bidoia: poesia e contaminazioni artistiche a tutto tondo. La scrittura, il teatro di carta e il collage come atto anche d’amore. A cura di Francesca Marica

    

Cara Nicoletta, iniziamo con una tua breve presentazione. Sei una poetessa (cinque libri all’attivo, l’ultimo è Scena muta, Ronzani, 2020) ma anche una scrittrice (Vivi. Ultime notizie di Luciano D., La Gru. 2013), e ancora, un’autrice e ideatrice di spettacoli (ne conto due, Un piccolo miracolo con la cantautrice Laura Mars Rebuttini, e, Sotto terra sopra un prato con il cantautore Gerardo Pozzi) e un’artista visiva, realizzi collage e teatrini di carta.
Una donna dalle molte facce. Una donna che ne contiene tante. Una donna matrioska. Una donna complessa, densa. Come si coniugano e convivono tutte queste tue anime? Quanto, e in che modo, la componente letteraria influenza quella visiva e viceversa?

Sono anime che dentro di me non si danno neanche del tu. Mi dedico loro separatamente (se scrivo non ritaglio e viceversa), hanno caratteri e influenze differenti (quando scrivo mi ammalo, quando incollo rifiorisco) e si esprimono con tempi diversi (il libro di narrativa l’ho composto e limato in alcuni anni, quelli di poesia sono fulminei, in qualche settimana sono pronti e ci lavoro per sottrazione, mentre le fasi di composizione di collages e teatrini sono  lente poiché avvengono dopo ricerche e grandi accumuli di materiali e confluiscono in serie numerose). Dopodiché, all’interno di ogni anima ne abitano altre e la coesistenza diventa affollata: alterno versi più affabili a poesie più asciutte, nel libro di prosa c’era ironia mentre nelle ultime prose liriche c’è severità, ci sono collages più rarefatti e altri più densi… Tuttavia, mi sembra che nella diversità possa essere riconoscibile, anche se con esiti alterni, la cifra comune di un certo rigore, un forte sentimento di riconoscenza, anche un tratto di ossessione compulsiva e la costruzione di ogni lavoro con un disegno e un ritmo che, di volta in volta, mi sono chiari dall’inizio. Restano però dei ripieghi: io avrei voluto danzare.
Le collaborazioni coi cantautori Rebuttini e Pozzi sono nate con naturalezza dal riconoscere una profonda affinità in progetti diversi: le canzoni di Laura si armonizzavano molto bene con le poesie della raccolta Verso il tuo nome, mentre quelle di Gerardo si avvicinavano in modo sorprendente alla pazzia e ai guizzi stravaganti del mio amico Messia raccontati in Vivi.

Nell’introduzione a Scena muta, il tuo ultimo e bellissimo libro in versi, il poeta Alberto Cellotto racconta di una parola che smaschera la contraddizione e l’esitazione che tutto plasma, individuando diversi nuclei tematici che attraversano trasversalmente il libro. Desidero soffermarmi su quelli che considero maggiormente rappresentativi del tuo modo di scrivere ma anche del tuo modo essere, di abitare il mondo e la parola: il silenzio – il bianco – lo smarrimento – la penombra, che sottrae al chiaro ciò che conta. Cosa ci racconta questa sinfonia di elementi? Verso quali traiettorie, verso quali terre lontane e arcaiche ci conduce?

Mi riconosco molto in quell’esitazione suggerita da Cellotto. Credo abbia a che fare con ciò che nella vita, nonostante i molti tentativi, resta impenetrabile, indicibile e irraggiungibile con le nostre forze. Non si può vedere tutto, né portarlo alla luce o tradurlo con le parole. È un’esperienza frontale di separazione dalla vastità, e quindi di perdita e nudità. Si trema per questo, ma il compito è quello di continuare a provare, nonostante povertà, balbettii e fallimenti.

Il silenzio è un tema onnipresente in ogni tuo libro; di più, in ogni tua manifestazione artistica. Il silenzio ti attraversa e ti appartiene ontologicamente. Il silenzio è uno dei tuoi viaggi possibili. Wittgenstein ha scritto Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. E Baudelaire prima di lui, Felice chi, semplice, si libra sulla vita e intende il linguaggio de fiori e delle cose mute. Il silenzio come opportunità etica e il silenzio come sottrazione di suono e di rumore. Penso anche a Rilke e al suo tempo del dicibile. Con quale di queste conclusioni ti senti più a tuo agio? Che cos’è, per te, il silenzio? Che valore simbolico assume?

Infatti amai molto quel libro di Wittgenstein, Pensieri diversi, così come “l’ininterrotta notizia che dal silenzio si forma” di Rilke, ma anche “la dolcezza e il diritto di non aver nulla da dire” di Deleuze. Nella poesia il silenzio si impone poiché è prima di tutto ascolto, in disarmo. È fare attenzione e spazio per incontrare il mistero che è in ciascuno di noi e nell’altro e per accogliere la realtà in ciò che dice e tace. Il silenzio è anche il respiro di ciò che non si vede, è popolato, ed è in questa dimora che abitiamo continuamente, ma va affiancato con riguardo e va difeso perché possa diventare lievito.
In Scena muta tace chi non sa o non sa come dire, oppure non vuole dire, chi danza e chi, ammutolendo nella pazzia, sente le voci. Sono silenzi dati da incapacità e disagio, ma anche pratiche di libertà e piccole forme di eresia, per custodire strenuamente il proprio segreto. Si resta così sulla soglia, per sottrarsi all’imperativo dilagante di trasparenza, di ostensione di sé e confessione spudorata. Ma il silenzio e l’assenza non producono e quindi non viene dato loro valore. Restano imperdonabili.

Il bianco è un altro tema ricorrente nella tua poetica. Ne abbiamo discusso spesso insieme. Nell’immaginario comune, il bianco aumenta e affina la bellezza delle cose, impartisce loro una speciale virtù, regala candore. Ma il bianco non si esaurisce in questa missione di splendore; il bianco nasconde anche un grande abisso, è capace di accrescere il terrore fino all’estremo. Il bianco con la sua indefinitezza adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo; lo ha scritto splendidamente Melville in quel capolavoro che è Moby Dick. Il tuo bianco, che bianco è? Che cosa ci vuole raccontare?

Nel bianco io vivo una tensione verticale che mi interroga sempre in modo diverso e mi accorgo che nel tempo è stato lo spunto per tentare di accostare un vertice che mi risulta misterioso. Così il bianco ha raccontato lo spaesamento di un gruppo di alpini dispersi in una bufera di neve che ritrovano la strada con una mappa sbagliata, la tabula rasa e l’afasia provocate da un problema spinoso di amnesie, le atmosfere rarefatte e impervie della piccola era glaciale europea, ricorda anche l’inverno in cui si raggela la mente di un’adolescente che fa una traumatica esperienza del limite, la neve che nasconde l’enigma di un uomo schivo e indecifrabile, e quella di San Pietroburgo che vede crescere il danzatore Nijinksy, vittima di un accecante immedesimazione con Dio (sono alcune sezioni da L’obbedienza e da Scena muta).
Nel bianco che frequento c’è esilio, incertezza, inquietudine, ma anche riposo, strane epifanie e bisogno di Dio.

La poesia talvolta agisce in modo arbitrario, ha scritto Cees Nooteboom. Agisce in modo arbitrario perché conduce in luoghi spesso non considerati né immaginati. Scena muta quali testimoni raccoglie? Che continuità esistono, se esistono, tra il tuo ultimo libro e i precedenti? Hai in cantiere lavori nuovi? A cosa ti stai dedicando in questi ultimi mesi?

C’è infatti un luogo a cui non avrei mai immaginato di approdare con la poesia ed è un anno doloroso che appartiene alla mia adolescenza e che, dopo quarant’anni di silenzio, è affiorato improvvisamente e mi ha costretta a sostarci per una settimana, con una scrittura piuttosto ipnotica e inattesa.
Scena muta dialoga soprattutto con le sezioni La mappa e Le amnesie de L’obbedienza, che uscì nel 2008, e con la sezione Silenzi di Come i coralli, per le ragioni a cui ho accennato.
Non scrivo da tempo. I miei ultimi versi risalgono all’estate 2019 e sono tutti confluiti nell’ultimo libro. Verosimilmente, per come sono fatta e per come è andata in passato, non scriverò più poesia per alcuni anni. Il desiderio ora è di tornare presto alle nuove serie di collages e ai teatrini di carta che iniziai anni fa e che solo in piccola parte ho concluso l’anno scorso.

Mi piace definirti una poetessa e un’artista in direzione ostinata e contraria. Sei attenta, colta, misurata, mai fuori luogo e fuori tempo. Sei una poetessa e un’artista appartata, nella accezione più nobile e alta del termine. C’è qualcosa di aristocratico e meditato nella tua parola. Come si è evoluta la tua scrittura in questi anni? Quanto i cambiamenti sociali, ambientali, politici che hanno interessato la società civile hanno condizionato la tua scrittura?

Il riserbo asseconda la mia timidezza e il pudore che provo nell’essere esposta. Respiro meglio se sto a margine e nella penombra, dove comunque è possibile l’incontro. Di fronte a chi ci vuole costantemente visibili, stananti e confessati, sento sempre più urgente il bisogno di nascondermi e scomparire.
Mi sembra che la mia scrittura negli ultimi anni, pur essendo sempre incline alla musica, sia diventata più sorvegliata, più vigile e allusiva, ma riconosco delle tematiche costanti che attraversano poesia e prosa. La follia: la mente che si disorienta, che inciampa e si infortuna in modi diversi (il sentire le voci, l’afasia, le dimenticanze, la schizofrenia, il disamore di sé che intrappola e confonde, una poeta che veniva dal manicomio e un danzatore che ci finiva, la vulnerabilità di tutti…). Accanto allo smarrimento, ho cercato di intravedere anche l’ostinazione nel resistere agli urti e ne è seguito il bisogno di raccontare storie minori del Novecento e di dar voce ad alcuni invisibili, sottraendoli all’oblio. In una sezione di Come i coralli erano le storie di alcuni miei familiari (la prigionia di mio nonno, l’assassinio in strada di un prozio socialista, la rivalsa postuma per un matrimonio riparatore all’alba, la morte per gioia di una prozia nel rivedere il figlio che aveva dovuto abbandonare…) o le attese sfiancanti di una lettera da parte dei matti del manicomio di Volterra a cui fu impedito di comunicare con l’esterno. In Vivi c’era il mio incontro con Luciano D. che per salvarsi, dopo quasi quarant’anni di manicomio, si era dato l’altissimo compito di essere il Messia, a cui si atteneva con scrupolo, e altrove c’è stata la storia del ritorno inspiegabile al campo di quei soldati scomparsi.
L’attualità ha premuto di più in Come i coralli (col naufragio e le rotte dei migranti, la violenza domestica, i suicidi dei disoccupati), ma è stato sparso qualche indizio di insofferenza anche in Scena muta, sebbene in modo più obliquo.

Una domanda anche sui tuoi lavori visivi che, come sai, amo molto. Veramente?, Edizioni La Gru, è stato pubblicato nel 2021. Il libro raccoglie alcuni dei tuoi lavori, si tratta di collage composti in tempi diversi, molti dei quali pensati in formato cartolina postale. Nelle note finali del libro, spieghi tu stessa che molti di quei collage sono nati per viaggiare e in parte ci sono anche riusciti. Sempre nelle note finali ringrazi chi, sotto forma d’arte o di carta destinata alle immondizie, ti ha donato i pezzi di mondo necessari per inventarne un altro. Sono parole fortissime che mi hanno colpito profondamente. Ma ancora più forti sono le parole che usi nella nota iniziale quando scrivi Ecco, chi fa un collage è già morto una volta e non si capacita del dissesto. Ne abbiamo già parlato altrove, ma vorrei tu spendessi due parole anche in questa occasione: che cosa significa oggi, fare collage?

Nel mio caso, il collage nasce dall’urgenza di scardinare il mondo e di ricomporlo. Se poesia e collage condividono l’attenzione devota al dettaglio, il poeta è tenuto a una fedeltà precisa al reale, mentre chi ritaglia sconfessa il mondo, ne prende distanza e poi lo reinventa. Con le forbici torno ogni volta a una ferita, la ripercorro intimamente ad ogni taglio, per poi ricucirla in modo diverso. Diventa allora un atto liberatorio, ma è anche un interpretare il gesto o il viso che si sta tagliando per riconoscerne da vicino una somiglianza o per avere una vita diversa a disposizione, quasi fosse uno sconfinamento dal proprio destino.
Il formato che uso è ossessivamente quello di una cartolina postale – che riduce simbolicamente la distanza con l’altro – o di un segnalibro – che gli ricorda una presenza.
Tre anni fa ho cominciato a inserire parole prese da rotocalchi, romanzi o poesie (un ciclo è dedicato anche ai versi di Josif Brodskij), accostate in modo casuale a dei lacerti trovati in riviste che amici e parenti continuano gentilmente a donarmi. Salvando scarti e frammenti, facendo nascere dal loro dialogo nuovi lampi di storie e spedendoli per posta, rischiandone la perdita, il collage diventa così anche un atto d’amore.

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