Intervista al poeta e scrittore Marco Ercolani: Il dottor Čechov, un uomo di cattivo tono (ma lo era per davvero?). A cura di Francesca Marica
I fatti sono fantasmi – ho dimenticato chi lo diceva.
Ma non esistono che i fatti: è il modo di narrarli
che ogni volta è diverso come una voce di donna.
Strano che nessuno voglia imparare a scrivere:
forse è questo il desiderio di successo.
Alla fine, il paesaggio è un’ancora.
Durerà ancora per millenni. E le chiacchiere stupide degli uomini
non potranno nulla contro i tronchi millenari di quella foresta.
La bellezza e l’eternità esistono, ma forse non per noi.
Gli uomini muoiono, assaliti dai loro fantasmi.
Le risposte del mondo sono: o il silenzio o la violenza.
Un uomo di cattivo tono è uscito nel 2020. Il libro è un omaggio allo scrittore russo, Anton Pavlovič Čechov. Mi correggo, il libro non è un omaggio, è una dichiarazione, se non d’amore, sicuramente d’affetto e di stima profonda. Forse anche di immedesimazione, a tratti. Mi spingo fino a supporlo e correggimi se sbaglio.
Lo spunto di partenza reale per questa tua ultima invenzione apocrifa, e lo confessi tu stesso nella breve nota introduttiva al volume, sono i Quaderni del dottor Čechov, Appunti di vita e letteratura 1891/1904 apparsi in Italia per le edizioni Feltrinelli nel 1957. Un libro che amo molto. Ora, tralasciando i motivi personali e sentimentali che mi legano a Čechov, a quella sua opera in particolare, soprattutto oggi nel momento presente in cui ne scrivo, ti chiedo: cosa rappresenta per te Čechov? Cosa può ancora raccontarci? Perché hai scelto di confrontarti con lui?
Ho scelto Čechov perché identificarmi con lui, oggi, è un atto di libertà da eccessivi lirismi espressivi. Lui medico, io psichiatra, è una bella combinazione: senza contare che, da ragazzo, lo lessi prima di ogni altro scrittore. E da allora l’ho amato senza riserve perché riuscivo a vedere i suoi personaggi come creature vere, indipendenti dalla personalità dell’autore, sospese in qualche decisione difficile, esitanti, umanissime. L’ingombrante potenza dell’io tolstoiano o la tragica nevrosi dell’io dostoevskiano mi erano più estranei dell’andatura pacata di quelle storie.
Sei un poeta ma anche uno scrittore in prosa e la scrittura apocrifa ha sempre avuto un ruolo importante nella tua produzione letteraria. Nella nota introduttiva a Un uomo di cattivo tono, confessi che lo scopo di questo tuo libro non è quello di scandagliare da biografo nell’intimità del celebre scrittore ma di evidenziare, tenuto conto soprattutto delle sue ultime produzioni in prosa, il paradigma di una scrittura antisentimentale, crudele, aforistica. Puoi connotare meglio questi tre aggettivi: antisentimentale, crudele e aforistica? In che misura, e perché, la scrittura di Čechov aderirebbe a quel paradigma così tripartito?
Non credo di esserne totalmente persuasa e convinta. Ma raccontaci il tuo punto di vista.
I tre aggettivi riguardano soprattutto l’ultima, ellittica scrittura di Anton Čechov, quella moderna e feroce dei “Taccuini del dottor Čechov”, e non quella degli altri racconti, più distesi e compatti, malinconici anche se mai consolatori. In questa breve raccolta di taccuini Čechov annota incipit di racconti, frammenti di pensieri, sentenze, descrizioni. Il lettore si accorge di trattare con un materiale difficile e spinoso, dove l’attenzione all’umano è anche l’attimo in cui ad affiorare è il “disumano”. Uno fra i tanti esempi: «Un giovanotto accumula un milione di francobolli, ci si siede sopra e si tira un colpo di rivoltella». A Čechov sembra non interessare più il retroterra del narrare, la malinconica rassegnazione delle figure, ma l’enunciazione fulminea della cinica assurdità del vivere – il che lo rende mio/nostro contemporaneo. Da qui scatta il meccanismo dell’identificazione e la necessità di inventare un libro apocrifo. Chi si accinge a scrivere al posto di un altro non è mai solo. La sua scrittura è una prova estrema, un parlare oltre, arriva dalla voce altrui, che lui ascolta da sonnambulo. Si identifica, fin dall’inizio, con anime che possano condividere le loro passioni con la sua. Si fa portavoce del dolore di una ferita che non è suo e, proprio perché non è suo, gli assomiglia. Cerca destini che gli rispondano ancora, completando il senso di un’opera imperfetta, interrotta, interminabile. Smaschera amnesie, denuncia torti, rivela dettagli illuminanti e ottenebranti. Riconsegna, a destini fraintesi, la loro intima ossessione. Così mi è accaduto per Čechov.
Alla sua vita, affidata alla storia del teatro e del racconto e sigillata dal silenzio di una fine prematura, chiedo di tornare ancora incompiuta, sul palcoscenico di questo mio journal, per svelarmi una parte del suo segreto, per ”parlarmi” con una rinnovata coscienza di sé. Quando creo un testo impossibile so, mentre lo scrivo, che diventerà possibile dall’interno di una scrittura-ombra che snida i suoi fantasmi con ostinata pazienza, sapendo di costruire altri fantasmi. Navigo nel mondo delle ipotesi e delle congetture, dei commenti e delle fantasie, del vero e del falso, in una terra instabile e metamorfica, al confine tra veglia e sonno, mosso da una pietas paradossale per nodi ancora dolenti: in questo caso i liberi ed errabondi pensieri di Anton Pavlovic’ Čechov. Condivido le parole di Calvino quando scrive che tutti i libri sono apocrifi, perché l’io che parlano non è solo quello dell’autore: ma nello stesso tempo credo che l’influenza esercitata dall’io scrivente sia qualcosa che determina il clima di un testo. Quindi Un uomo di cattivo tono è soprattutto il mio Čechov, plausibile, immaginato, reale. «Quali sono i confini? Quando il racconto si conclude».
Alcuni critici e studiosi, penso soprattutto a Carlo Grabher, hanno evidenziato come in Čechov la componente del dramma assuma le caratteristiche di un dramma di tutte le impossibilità. La mediocrità di una vita senza certezze e senza vere illusioni, questo male di non sapere più come e perché si viva, questo doloroso ripiegamento in se stessi, fa da sfondo alla maggior parte delle opere narrative e teatrali di tutta la produzione di Čechov, in particolare modo l’ultima che poi è quella a cui dichiari espressamente di ispirarti. Trovo particolarmente suggestiva l’espressione dramma di tutte le impossibilità.
Cosa ne pensi tu? Sei d’accordo con Grabher? E se sì, perché?
Non posso che essere d’accordo con Grabher, anche se non conosco la sua opera critica. Il dramma di tutte le impossibilità è, però, simultaneamente, il dramma di tutte le possibilità, così come sono vissute dai personaggi stessi dell’autore russo.
In realtà Čechov non è solo simbolo di un fallimento o di una incertezza esistenziale, ma anche di un progetto-speranza che, proprio nell’attenzione alle minime percezioni umane, oltrepassa i confini di ogni realtà. «Accettare la propria banalità di uomo serve a pensare racconti migliori» scrive il mio Čechov, che non smette di “pensare” un possibile futuro. Anche se questo futuro può essere solo l’epifania di un treno fermo nella neve della steppa e il godimento effimero della magia di quella sosta. “Riscrivere” Čechov è anche elaborare il lutto della sua precoce scomparsa dal mondo e provare la gioia di reimmaginare una conversazione con lui. Mi piace dire che, a libro concluso, ho provato un senso di pace, come se avessi assolto con gioia al patto necessario, al compito che mi ero prescritto: inventare un ‘falso d’anima’ che raggiunga ‘effetti di verità’.
Vorrei avere bisogno di fiabe, scrivi a pagina 110 del libro. E poi, poco dopo a pagina 112, in una continuità quasi ideale ma ossimorica, scrivi: La vera notte ci aspetta senza sogni, come da copione. Il potere salvifico delle fiabe e la disillusione del reale, perfino nella sua componente inconscia, quella onirica. Come si conciliano questi due momenti?
Da chi e da cosa, le fiabe avrebbero potuto salvare Čechov? Da chi e da cosa, le fiabe possono salvare il poeta e lo scrittore Ercolani?
Il condizionale è d’obbligo: «Vorrei avere bisogno di fiabe». La realtà dello scrittore è quella di una notte senza sogni, priva di favole, come da copione. Nessuna fiaba può consolare, perché ogni fiaba comprende un mutamento, che nei racconti cechoviani è sempre sospeso, sostituito dallo spleen estenuante della ripetizione. Ma nel mio libro scrivo anche: «Amo tanti dei miei personaggi. Chi conosce la temperatura dell’anima sa che tutto è possibile, anche uno sconsiderato amore per esseri mai esistiti, inventati con il gusto reale della fantasia». Quando Andrej Efimyc scopre, ne La corsia numero 6, che la sola persona intelligente con cui può dialogare nello squallido paese dove vive è un folle, il mondo gli si rovescia addosso e con il passare del tempo lui stesso diventa strano, impazzisce, sarà internato, morrà. Non sembra, Andrej, il protagonista di una fiaba “rovesciata”, da cui è abolito il lieto fine?
Čechov e il sognare. A pagina 123 scrivi: Il corpo umano non riposa mentre dorme. Prende appunti inconsapevoli: i sogni. Trascriverli durante la veglia è l’atto successivo, perché diventino mattoni di un edificio che non esisteva prima, di un nuovo racconto. Ma ancora prima, a pagina 108: Io amo i sogni leggeri, non il pesante pensiero.
Il sogno come inconsapevole incipit letterario, dunque? Il sogno come presa di distanza dalla realtà? Una lontananza necessaria per l’espediente narrativo? Che cos’è il sogno? Cosa rappresentava per Čechov? Cosa rappresenta per te?
Čechov ha scritto: «Diventavo un sognatore e, da sognatore, non sapevo esattamente cosa volessi». Credo che Čechov conoscesse poco la natura del sogno, per come lo intendiamo noi contemporanei, almeno dopo la freudiana Interpretazione dei sogni. Ma per lui, scrittore realista, tutto ha la risonanza e la complessità del reale, tanto la veglia quanto il sogno. Kovrin, il protagonista de Il monaco nero, delira una figura “radiosa” di monaco che lo consola e lo esalta. All’ennesima apparizione gli chiede: «Tu sei un fantasma, un’allucinazione. Dunque io sono psichicamente un malato, un anormale? … Se so di essere psichicamente malato, posso credere a me stesso?». Il monaco risponde: «E come sai tu che gli uomini geniali, ai quali tutto il mondo crede, non abbiano veduto anch’essi dei fantasmi? Dicono pure gli scienziati oggi che il genio è parente della follia. Amico mio, sani e normali sono soltanto gli uomini ordinari, quelli del gregge». Sulla scia delle frasi di questo racconto io posso far dire al mio Čechov:«Certe volte mi chiedo se la follia non sia uno sguardo di letale chiarezza sul mondo circostante, prolungato per un tempo non sopportabile dall’uomo. Non sono uno specialista ma credo che a rendere irreversibile la pazzia sia l’eccessiva durata di quello sguardo».
Čechov e la concezione dell’uomo (tutti gli uomini sono pesci e boccheggiano appesi all’amo, pagina 135). Čechov e le donne: il rapporto con Olga. Čechov e la religione, il problema della divinità e dell’immortalità dell’anima, le distanze da Tolstoje Dostoevskij.
Quante domande… Čechov risponderebbe così: «Tre giorni di silenzio, e il mondo è un altro mondo». Se Tolstoj e Dostoevskij potevano ancora nutrire illusioni extraletterarie e vivere, con diversi fanatismi, l’ossessione della fede, il laico Čechov (allegramente, tristemente) se ne infischia. Lui, parole sue, “è un uomo di cattivo tono”. Può dire, con sprezzante e swiftiana lontananza: «Forse il nostro universo si trova dentro il dente di qualche gigante».
Anche se ci tiene a sottolineare: «Senza un dio ulteriore niente è necessario. Niente è possibile». La sola immortalità che lo può ancora affascinare è quella dei suoi personaggi, che ancora oggi sfavillano più del suo nome, come accade soltanto in Shakespeare. La signora col cagnolino, Il monaco nero, Nina, Trigorin, Zio Vanja, sono immortali. Così come la gioia, intima e sessuale, procurata dalle molte donne amate, e dalla moglie Olga. «Cosa significa, quando il bacio di una donna ti stordisce e tu chiudi gli occhi per farti stordire? Che il paradiso esiste, e sai quando e perché esiste». Potresti dirmi che sto delirando, che questo è solo il mio Čechov, da me inventato di sana pianta. Va bene lo stesso: accetto di delirare. Qui e ora.
La modernità di Čechov. Qual è, a tuo giudizio, la sua eredità più importante?
Non essere mai stato influenzato da nulla, se non dalla realtà emotiva dell’uomo. Spesso ci si immagina la realtà come un luogo angusto, dal quale dover fuggire. Verissimo. Tutti i personaggi di Čechov la fuggono, ma non per qualche idea o teoria astratta, bensì per la propria utopia personale, la propria intima speranza. La vera eredità di Čechov è quella forma di attenzione al nostro essere umani che ci garantisce di essere liberi, nel fallimento come nella vittoria.
«Non è facile sostenere il peso di quanto abbiamo scritto. Ma possiamo provarci. Gli sconosciuti che vivranno dopo, uomini e donne come noi, tenteranno di creare un senso nuovo, come il mare da’ senso alle rocce che percuote. È necessario che qualcuno resista, come facemmo noi e ci dimentichi. Il nostro non è mai l’ultimo racconto». E, se queste sono le mie parole, la mia lettura di Čechov, la parola autentica dello scrittore eccola qui: «Un uomo impazzito, convinto di essere solo un’apparizione: vaga solo di notte. Sviluppare il tema». E allora, cosa possiamo dire? Che, come tutti i grandi classici, Čechov continua a parlarci, senza trasmettere nessuna sicurezza: ci mostra solo delle emozioni che ci consentono di osservare il futuro non come fotocopia del passato ma come palinsesto dove scrivere e riscrivere ancora. Pur lontano dalla poesia scritta, Anton Pavlovic è poeta di meraviglie e di disperazioni.
«L’uomo vivo rivendica l’intero globo terrestre. Non gli bastano due metri di terra: quelli bastano ai morti». Se io, per qualche anno, ho convissuto con lui e oggi, rileggendo questo mio libro, non riesco neppure a distinguere le mie parole dalle sue, qualcosa vorrà dire: che i morti non sono mai completamente sotterrati e con le loro opere passano il testimone a dei vivi che possano identificarsi con loro. «Nell’altro mondo vorrei poter pensare, di questa vita, che sono state magnifiche visioni».
A cura di Francesca Marica.
Checov ed Ercolani: un vero connubio artistico
Cechov ed Ercolani, due medici: la scrittura come cura? Anche, forse.
«Ora so, io ora capisco Kostja che nel nostro lavoro – sia di attore o di scrittore – l’essenziale non è la gloria, non il lusso, non quello che io sognavo… Ma la capacità di soffrire. Sappi portare la tua croce e credi.
Io credo. E non soffro più.
Non tanto…»
Nina d’Anton per Ercolani, ringraziando Marcello Ferrau e tutte le Maestranze che si ringraziano solo quando sono *a pagamento occulto* [ma riconosciute e taciute dal Gotha].
Φυσώδης Δαινω
[o: la “limacciosa” Eretista]
https://www.youtube.com/watch?v=gO5gKvMUqOc&t=115s
Bella intervista. Non vedo l’ ora di leggere il Cecov di Ercolani.