Fascinazioni

Vladimir Vladimirovič Majakovskij

 

Schema di Parigi 

Dopo la misera Berlino, Parigi sbalordisce. 
Migliaia di caffè e ristoranti. All’esterno, ogni vetrina è adorna di aragoste e banane. Le innumerevoli profumerie sono visitate ogni giorno da stupende acquirenti di essenze. Attorno alle fontane di piazza della Concordia danza il valzer un numero senza fine di automobili (a quanto sembra, l’unico cavallo, l’ultimo, è esposto in un serraglio). Al Mayol, all’Alhambra, anche durante lo spettacolo, a lampadari spenti, riluce una miriade di brillanti. Le lampade delle taverne di Montmartre basterebbero per tutte le scuole russe. Perfino il tifo, a Parigi (dove oggi infuria il tifo addominale), è elegante: i parigini lo prendono nelle ostriche.
Non ci capisco niente! Tre milioni di lavoratori francesi sono stati divorati dalla guerra. L’industria è stata mutilata dal trapasso alla produzione bellica. Intere regioni sono state devastate dall’invasione. Il franco cade (per una sterlina mi hanno dato sessantanove franchi). Eppure, c’è tutto questo sfarzo.
Parrebbe che per sopportare una metà di questo lusso, ogni casa di Parigi dovrebbe esser convertita in fabbrica, e l’ultimo deputato senza terra essere inchiodato alla macchina.
Ma nelle case ci sono le solite trattorie.
E i deputati, come al solito, ciarlano al vento.
Vago per le strade. Tento di afferrare lo schema della giornata parigina, e di rintracciare le sorgenti dell’oro, di appurare le dimensioni della ricchezza.
A poco a poco lo schema si delinea.
In un giorno feriale (tralascio le minuzie), tutti, dalla camera dei deputati e dai maggiori quotidiani sino all’ultima portinaia, s’industriano a estrarre oro, non da una qualche miniera, ma da certe scartoffie sospette: il trattato di Versailles, il trattato di Sèvres, gli impegni del nostro Nicola. Lavora Poincaré, che cuce per la Germania la camicia di forza delle riparazioni. Lavora il giornale, e calunnia la Russia, che s’oppone alle rapine internazionali. Lavora la portinaia, sostenendo il governo con tutte le sue forze e per quanto lo consentono le obbligazioni dei prestiti russi.
Chi ha fatto man bassa sui «danni di guerra» va al Mayol. Chi è riuscito a estorcere solo uno stipendio va al caffè. Chi non ne ha cavato niente corre al cinema, ad ascoltare gli inviti del governo all’incremento demografico (bisogna «rigenerare» i tedeschi), s’invaghisce del «neonato più sano di Parigi», si sforza di calcolare quanti franchi questo pargolo costerà all’economia c… s’arrende, remissivo, alla propaganda.
Di mattina, chi torna da Montmartre s’imbatte nei carri verdi degli agricoltori dei dintorni che vanno a Les halles, «ventre di Parigi».
I contadini ricevono la carta e il rame, avanzati nel cambio dei marchi d’oro. Parigi riceve la sua porzione di insalata e carote per ristorare le forze dei lavoratori di Poincaré e delle portinaie.
Purtroppo (per Parigi), questo non è un perpetuum mobile.
Sempre meno francesi, sempre più americani, carichi di dollari, gustano Parigi. Gli americani vanno a Parigi, come a Berlino, per riposarsi. Costa poco!
Sempre più esili sono le speranze nelle proprietà terapeutiche dei marchi tedeschi.
Parigi comincia a comprendere: i tempi del federalismo sono tramontati per sempre. Di tributi di guerra non si vive. Parigi si sforza di guardare oltre i «passaporti sanitari» dei commissari speciali. I giornali parigini si empiono delle parole: «moratoria», «tregua». Dai giornali strepitano 270 interviste di Herriot. 


V. V. Majakovskij, Opere 7, Editori Riuniti 1958. Traduzione di Ignazio Ambrogio, Giovanni Crino, Mario Socrate, Pietro Zveteremich. 

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