Esperienze

Epifania dell’impostura. A futura memoria di Leonardo Sciascia

Cento anni fa, l’8 gennaio del 1921 nasceva a Racalmuto, in Sicilia, Leonardo Sciascia. La cifra tonda dell’anniversario offre, come sempre, un’occasione di speciale commemorazione e di riflessione, per manifestare allo stesso tempo la propria prossimità o distanza rispetto a un passato o un presente. Nel caso di Sciascia, tuttavia, un tale “posizionamento” assume inevitabilmente contorni radicali, giacché investe il rapporto stesso con la verità e la menzogna. La scrittura di Leonardo Sciascia, infatti, è una costante investigazione del vero e del falso, del loro inestricabile rapporto e delle sue possibili declinazioni. Tra queste, l’impostura – e la sua natura ambigua e inesorabile – occupa un posto particolare nella sua opera, trovando ne Il consiglio d’Egitto (1963) una sorta di esplicita teorizzazione. Qui, un avvocato, il giurista “giacobino” Francesco Paolo Di Blasi, diventa il teorico e il tragico eroe dell’inestricabile intreccio che stringe la vita alle sue finzioni, un intreccio che si storicizza, nella misura in cui afferra il movimento stesso della storia. Storica è la lunga vicenda (1782-1795) dell’abate Vella e della sua arabica impostura[1], che Domenico Scinà[2] (1765-1837) raccontò in pagine avvincenti. Nel conflitto che allora si accendeva tra la Sicilia e Napoli, tra nobiltà feudale dell’isola e monarchia, il falso codice arabo-siculo creato dall’abate Vella fu un’importantissima fonte di diritto a sostegno della tesi monarchica contro i privilegi che i baroni siciliani detenevano in virtù di una dottrina giuridica feudale, non meno sapientemente orchestrata come inattaccabile impostura.
Se la prima parte de Il Consiglio d’Egitto esplora finzionalmente i moventi dell’impostore Vella, la terza ripercorre la vicenda dell’avvocato Di Blasi – il suo tentativo rivoluzionario, l’arresto, la tortura, la condanna a morte –, che figura insieme come dramma delle idee esposto nella forma del pamphlet.  Il falso dell’abate Vella, che potrebbe apparire un volgarissimo crimine, è nelle parole dell’avvocato Di Blasi:

uno di quei fatti che servono a definire una società. […] Se in Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione e falsificazione della realtà, della storia […] l’avventura dell’abate Vella sarebbe stata impossibile [egli] non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, rovesciandone i termini… Di un crimine che in Sicilia si consuma da secoli… [3].

Pertanto, secondo una logica lucida e spietata ma ispirata da grande forza morale e intellettuale l’avvocato Di Blasi conclude:

ogni società genera il tipo d’impostura che, per così dire, le si addice. E la nostra società, che è di per sé impostura, impostura giuridica, letteraria, umana… Umana, sì: addirittura dell’esistenza, direi… La nostra società non ha fatto che produrre, naturalmente, ovviamente, l’impostura contraria[4].

Le idee di Di Blasi sono ispirate dal progetto illuminista di un’effettiva partecipazione dell’uomo alla ragione universale e al diritto. E tuttavia nell’impostura dell’abate Vella le premesse teoriche dei suoi progetti rivoluzionari trovano un inciampo che non è solo del pensiero:

La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita. […] E crediamo che la verità era prima della storia, e che la storia è menzogna. Invece è la storia che riscatta l’uomo dalla menzogna, lo porta alla verità […] Se hai creduto in Rousseau, è giusto che tu ne veda il contrappasso in Vella…[5].

Il suo tentativo di attuare un rovesciamento rivoluzionario fallisce perché gli è mancata la partecipazione di quei contadini vessati, a cui voleva portare il diritto ma di cui ignorava l’odio più grande per la Francia e le sue idee rivoluzionarie. Prima di essere condannato a morte, Di Blasi subisce il tratto della corda e risponde con il suo corpo, dopo aver risposto con la ragione, alla quaestio della tortura:

“La quaestione! Servos in quaestionem dare[6], ferre…: il loro latino”, vedeva le teste dei giudici galleggiare nella sua nebbia di dolore “il tuo latino… Tutto ciò, in qualche modo, ha da fare col latino; dove c’è il dolore c’è il latino; dove c’è la coscienza del dolore vuoi dire”. Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla[7].

Venuto a conoscenza della condanna a morte dell’avvocato Di Blasi, l’abate Vella vuole fargli pervenire il messaggio che egli è pentito della sua opera di falsificazione. L’abate sa bene che ciò non è vero e tuttavia non intende ingannarlo né pensa che ciò sia a lui di qualche conforto. Forse, sotterraneamente, intuisce una comune opposizione alla costrizione del dato, una comunanza che Di Blasi scorge e dichiara infine a se stesso in un’epifania dell’impostura:

Ha declinato a suo modo l’impostura della vita: allegramente… non l’impostura della vita: l’impostura che è nella vita… Non nella vita… Ma sì anche nella vita […] è stata un’impostura anche la tua, una tragica impostura[8].

Rossana Lista

[1] Cfr.Domenico Scinà, Adelaide Baviera Albanese, L’arabica impostura, Sellerio, Palermo 1978.
[2] In Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII (1827). Sciascia ritiene Scinà il migliore scrittore in italiano che ci sia stato in Sicilia prima dell’Unità.
[3] L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Adelphi, Milano 2009, p. 120.
[4] Ibid., corsivo nostro.
[5] Ivi, pp. 114-115.
[6] “Dare gli schiavi perché siano messi alla tortura”, dall’Oratio: Pro Sexto Roscio Amerino, cap. XLI, § 119. Cicerone assunse la difesa di Sesto Roscio Amerino accusato ingiustamente di parricidio. Grazie alla sua orazione Roscio fu assolto.
[7] L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, cit., p. 137.
[8] Ivi, p. 149.

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