Danilo Dolci
Ho cominciato a porre domande perché non sapevo. Via via mi sono poi accorto che anche gli altri, a cui domandavo, in fondo non sapevano. O sapevano poco.
Chi era la persona a cui domandavo? E chi poteva essere? Che intendeva, ad esempio, per sviluppo, crescere? In quale contesto assumevano un senso (e quale senso?) le sue parole?
Oggi, dopo quarant’anni di lavoro, mi accorgo come sia difficile sapere, prima delle risposte, anche quale sia esattamente la natura e il ruolo della domanda.
Non sono un antropologo o un sociologo scolastico, non so bene chi sono. Cerco di studiare il rapporto e come le sue condizioni inducono.
In una cittadina del nord, tanto ricca quanto addormentata, una mattina cercavo un caffè. Mi ero alzato presto, cercavo nella nebbia ancora oscura: e a un certo momento vedo emergerne una figura impellicciata. Non distinguo se è uomo o donna. Vedo un guinzaglio a al guinzaglio, lucidissimi gli occhi, un cane avido di guardare, sentire, intendere. Si avvicinano i due, il cane cerca, trascina alla scoperta. Quando infastidita la figura opaca dà uno strattone al guinzaglio rimproverando: «Cosa c’è da guardare!? Non c’è niente… da curiosare!», sospetto nella pelliccia vi sia un insegnante di lettere. Dall’endecasillabo, dal ritmo classico e dal tono, indovino. Penso: adesso un cane mi guarda quasi vergognoso; tra un’ora quel guinzaglio, pur se invisibile, forse tiene venticinque ragazzi.
Partito da questo paese riccamente addormentato anche di giorno, torno a Partinico, dove vivo da anni. Dopo una mattinata di lavoro esco, e che vedo? In fondo alla piazzetta, dalla soglia di una casa, un vero albero di gelsomino si impergola verso il tetto: e un uomo piuttosto anziano, un ometto, con le mani vi sta facendo qualcosa che non capisco. Salgo in macchina poiché devo andare verso casa, arrivo al fondo della piazzetta.
Voi sapete che i fiori del più comune gelsomino, appena compiuti, cadono integri: nelle Hawaii capigliature femminili scure fioriscono di gelsomini e ibiscus non strappati alla pianta.
Mi avvicino e guardando quelle dita tra le frasche domando: «Che stai facendo?». Quasi a giustificarmi, aggiungo: «Forse vuoi fare tè di gelsomino?». Lui volta la sua faccia pulita: «Sto prendendo fiori da mettere intorno alle fotografie di mio padre e mia madre». Dentro mi sento quasi trasalire: io passo per poeta e penso al tè di gelsomino; lui ritenuto incolto, lui cresciuto fuori della scuola, in quale splendido rapporto è con la fonte della sua vita.
Vedendomi un po’ sbalordito, si avvicina e mi dà tutti i gelsomini, di cui aveva colme le mani: «Tieni, ti profumano la macchina». Io, più smarrito che mai, poso nella macchina questo candore tenero, e vado.
L’indomani, appena finisco il lavoro mattutino, sento il bisogno di incontrarlo, desidero dirgli quanto ho imparato da lui. Nella piazzetta lo vedo. Mi avvicino. Appena riesco a dirgli: «Ieri ho imparato molto da te», mi tronca amabilmente la frase, non accetta che io sia su un piano diverso dal suo e immediatamente mi domanda: «Che dicevi ieri? Si può fare il tè anche con il gelsomino?».
Quale nesso tra le piccole parabole e il nostro tema?
Ho domandato. Un evento di valore si stava compiendo già senza la mia presenza. Quando sono arrivato e ho domandato rispettosamente, quell’evento si è ulteriormente sviluppato. Che lui non accettasse di essere su un piano diverso dal mio, più alto del mio, mi era enormemente importante. Pensavo: se questa non è cultura, io non so cosa è cultura. […]
D. Dolci, Dal trasmettere al comunicare. Non esiste comunicazione senza reciproco adattamento creativo, Sonda 1988. Con un commento introduttivo di Daniele Novara.