Rainer Maria Rilke
[…] L’ho già detto? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.
Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C’è un’infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d’uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire nemmeno una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i cani. E perché no? Una faccia è una faccia.
Altri si mettono un volto dopo l’altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma non appena sui quaranta, e già arriva l’ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco vien fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso. […]
[…] E ora di nuovo questa malattia, che mi ha sempre colpito in modo così strano. Sono certo che la si sottovaluta. Proprio come si esagera l’importanza di altre malattie. Questa malattia non ha alcun suo carattere specifico, assume i caratteri di colui che essa afferra. Con sicurezza sonnambolica trae fuori da ciascuno il suo pericolo più profondo, che sembrava svanito, e glielo ripresenta dinanzi, vicinissimo, per l’ora più prossima. Uomini che una volta, al tempo della scuola, hanno provato il vizio solitario, le cui complici deluse sono le mani povere e dure dei ragazzi, vi ricadono di nuovo, oppure ricomincia in loro una malattia che da bambini avevano superato; o ricompare un’abitudine perduta, un certo movimento esitante del capo, che anni prima era stato loro tipico. E con ciò che ritorna, si risolleva tutta una confusione di ricordi smarriti che gli pendono addosso come alghe umide su un oggetto riaffiorante dalle acque. Vite di cui non si sarebbe mai saputo nulla vengono a galla e si mescolano con ciò che realmente è stato, e rimuovono un passato che si credeva di conoscere: poiché in ciò che vien su c’è una forza riposata e nuova, mentre ciò che durava presente è stanco per essere stato troppo spesso ricordato. […]
[…] Quando si parla dei solitari, si presume sempre troppo. Si pensa che la gente sappia di cosa si tratta. No, non lo sanno. Non hanno mai visto un solitario, l’hanno solo odiato senza conoscerlo. Essi sono stati i suoi vicini, che lo logorarono, e le voci nella camera accanto, che lo tentarono. Hanno aizzato le cose contro di lui, affinché facessero rumore e coprissero la sua voce. I bambini si unirono contro di lui, poiché egli era delicato e bambino, e ad ogni crescita cresceva contro gli adulti. Giungevano sulle sue tracce fin nel suo nascondiglio, in caccia di lui come di una bestia, e la sua lunga giovinezza non ebbe periodi di tregua. E se non si lasciava esaurire e scampava, gridavano contro ciò che veniva da lui e lo dicevano brutto e lo rendevano sospetto. E se egli non ascoltava, divenivano più chiari e gli toglievano il cibo di bocca e gli respiravano la sua aria e sputavano sulla sua povertà perché gli divenisse ripugnante. Lo facevano credere un appestato e gli gettavano dietro le pietre perché s’allontanasse più in fretta. E avevano ragione nel loro antico istinto: poiché realmente era loro nemico.
Ma poi, siccome non sollevava gli occhi, rifletterono. Sospettarono d’aver fatto, in questo modo, proprio quello che lui voleva; d’averlo rafforzato nel suo essere solo e d’averlo aiutato a separarsi da loro per sempre. E allora capovolsero la loro tattica e ricorsero al mezzo ultimo, estremo, all’altra resistenza: la gloria. E a questo rumore quasi tutti sollevarono gli occhi e furono distratti. […]
R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti 2017. Introduzione, traduzione e note di Furio Jesi.