Su “Visione e preghiera e altre poesie” di Dylan Thomas (Giometti & Antonello, 2023), tradotto da Tommaso Di Dio, di Stefano Bottero
Nella prefazione a Visione e preghiera, raccolta di «poesie scelte» di Dylan Thomas appena uscita per Giometti & Antonello, il traduttore Tommaso Di Dio appunta una riflessione fondamentale: «Thomas ha una percezione così estrema della propria libertà che per lui non c’è alcun compromesso possibile». Da qui un criterio adottato per la riscrittura d’attraversamento che compie: elezione dell’inaffidabilità dei margini come categoria per intrepretare (per interpretar-si) al momento dello scrivere – sia esso presente o, come nella maggioranza dei casi, adolescenziale. La scrittura di Thomas ha infatti radici iniziatiche, giovanili – ancora Tommaso Di Dio ricorda:
È come se ciò che chiamiamo adolescenza, ovvero l’immane energia della vita nel suo diventare adulta, questo bilico di transizione, questa condizione di sospensione diveniente fra l’infanzia muta e la verbosità dell’età matura, avesse dato a Thomas lo strumento per tracciare somiglianze fra gli universi materiali, una lampada capace di gettare luce sulla medesimezza che permea i mutamenti delle materie del mondo […]
Le associazioni che il verso determina, la facoltà combinatoria che si immette nella voce al momento della scrittura, sono i punti cardinali non tanto dell’oggetto estetico, ma del respiro stesso. Tutto questo riguarda l’orientamento, lo sguardo, la postura del corpo al momento del verso (lezione che ha tra i suoi maggiori teorici, nel Ventesimo secolo italiano, Alfonso Gatto).
Così il Thomas di Di Dio è un poeta-uccello, un poeta-calce, un poeta a due dimensioni: un corpo stretto tra l’atto estetico, di associazione dei termini, e l’aderenza a questi. «I lineamenti», ricorda, «nella loro intimità oscura, / sono fatti di carne» («The features in their private dark / Are formed of flesh»). L’operazione linguistica è quindi basata sull’intromissione, nella prosodia italiana, di un’intuizione altra – imprevedibile, perché migrante fraseologica. In altre parole – Di Dio non appiana, non adatta la struttura linguistica ricevente all’aspettativa del suo lettore, ma resta paradossalmente fedele alla scansione originale.
Altrove, applicato ad altri versi, un atteggiamento simile avrebbe il peso dell’ipercorrettismo – a Thomas attribuisce invece vita nuova, libertà nuova. Leggiamo in Hand in Hand Orpheus: «Roses and wine before I die / Or cough my stomach» – restituito: «rose e vino prima che muoia / e prima che vomiti fuori il mio stomaco». Ancora, in Twenty four years: «In the final direction of the elementary town / I advance for as long as forever is» – restituito: «nella direzione terminale della città degli elementi, io / procedo per tutto il tempo che per sempre esiste». Non una ragione di rispetto, quindi, delle curvature originali a muovere la riscrittura di Di Dio, ma l’osservanza di specificità associativa che non appartiene al parlante italiano – e che risulta, all’atto della lettura, libertà compositiva. Ancora, altrove, in Now: «Should he, for center sake, hop in the dust, / Forsake, the fool, the hardiness of anger.» – restituito: «lui dovrebbe, per amor del centro, saltare nella polvere, / abbandonare, pazzo, la durezza della rabbia».
Eleggere l’aderenza a ragione non di rispetto, ma di nascita. Così Di Dio risemantizza il movimento sintattico, dota l’inalterazione del piano linguistico di una ratio nuova – quelle adolescente, mestruale, delle associazioni che rimettono «in moto l’origine». Nella conclusione di Before the gas fades: «You will not see the steadying or falling, Under the heavy layers of the night / not black or white or left or right» – restituito in: «non vedrai il mondo diventare fermo né cadere / sotto i pesanti strati della notte che è / non bianca, non nera, non destra, non sinistra». Seguire il discorso con le dita come avviene negli spazi stretti del nascondimento – familiari, da bambini, poi sempre meno. In questi centimetri il traduttore assume la rima dell’ultimo verso in un silenzio – in italiano, in un’accumulazione. In questo preme una cultura letteraria del tutto contemporanea, una ragione di scarto delle soluzioni facili offerte dalla tensione espressiva.
Una lingua, quindi, che resta nell’equivalenza – nell’aderire all’esperienza del detto come unico vettore di ciò che, ancora, è poetico. «And [I] ran a river / Up through the fingers’ cracks» – «e ho fatto scorrere un fiume / su su fino alle crepe fra le dita». Dall’archetipo al minimo, trattato con la condiscendenza del non alterare. Quasi – una preghiera.
I, the first named
I, the first named, am the ghost of this sir and Christian friend
Who writes these words I write in a still room in a spellsoaked house:
I am the ghost in this house that is filled with the tongue and eyes
Of a lack-a-head ghost I fear to the anonymous end.
*
Io, primo nominato
Io, primo nominato, sono il fantasma di questo signore e amico in Cristo
che scrive queste parole che scrivo io in una stanza immobile in una fradicia
casa di incantesimi: io
sono il fantasma di questa casa impregnata dalla lingua e dagli occhi di un
fantasma senza testa per cui provo terrore fino alla
fine anonima.