Esperienze

Righi di diario per Alessandro Leogrande, di Antonio Devicienti

 

Nell’imminenza del 26 novembre desidero dedicare alcune (povere) parole ad Alessandro Leogrande (Taranto, 20 maggio 1977 – Roma, 26 novembre 2017).

Lo riascolto spesso nei podcast di Radio 3 Rai – e mi commuovo: la sua voce (ora purtroppo postuma, ma se non altro la radio ancora ce la conserva), la sua voce, limpida e appena venata del bell’accento tarantino, racconta di Rocco Scotellaro e di Vittore Fiore, degli operai dell’Ilva di Taranto, dei desaparecidos in America Latina…
Racconti sempre chiari e perfettamente documentati: e si sente la partecipazione intellettuale ed etica, si sente la scelta di campo – con i diseredati, con i lavoratori, con gli antifascisti.

Leggo i suoi libri: la lucidità dell’analisi e la documentazione puntigliosamente completa e mai faziosa mi appaiono esemplari, mi confermano quanto egli manchi specialmente adesso che l’immonda marea dei venduti al potere sembra trionfare.

Quale distanza tra l’Albania raccontata da Leogrande e quella che stringe accordi con Meloni!
Vengo dal Salento, appena 80 km di mare separano la mia terra dall’Albania, rivedo le navi cariche di fuggiaschi entrare nel porto di Otranto, in quello di Bari: che cosa è successo all’Italia, perché si è così imbarbarita?
Vengo da una famiglia di migranti, sono io stesso un migrante.

Leggo il Diario del Novecento d Piergiorgio Bellocchio, lo rimpinzo di pezzi di carta con annotazioni (voglio ritrovarne poi alcuni passaggi, mandare a memoria certe frasi) – Leogrande e Bellocchio (si sono mai conosciuti?) appartengono alla stessa razza; scrivono per capire, lucidissimi distruggono i luoghi comuni, si confrontano con la complessità, non banalizzano, non semplificano, non rassicurano, non consolano.

Se transiti per la terra desolata che, orrida e spaventosa, cinge l’acciaieria tarantina comprendi: lo scempio, l’offesa, il profitto.
Se percorri i vicoli della città vecchia vedi: negazione dell’umanità.
Se ti siedi su di una panchina del Rione Tamburi lo sai: il cancro non è soltanto quello che ti sta consumando i polmoni.

Vorresti guarire. Vorresti portare via i tuoi figli.

La frontiera sta dentro, non fuori, non attraverso il deserto o lungo bracci di mare, ma dentro l’anima di chi ha perduto l’anima.

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