Antonin Artaud
Prefazione. Il teatro e la cultura
Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita, e che è fatta per dettare legge alla vita.
Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame.
La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.
Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere – ciò che proviene dal fondo misterioso di noi stessi non deve continuamente riversarsi su di noi in un travaglio volgarmente digestivo.
Voglio dire che se è essenziale per noi tutti mangiare subito, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell’unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice fatto di avere fame.
Se il segno dei tempi è la confusione, vedo alla base di tale confusione una frattura tra le cose, e le parole, le idee, i segni che le rappresentano.
[…]
Un uomo è considerato civile in base al suo comportamento, ed egli pensa come si comporta; ma persino la parola «civile» si presta a confusione; nel giudizio generale è civile e colto l’uomo al corrente dei sistemi, l’uomo che pensa per sistemi, forme, segni e rappresentazioni.
È un mostro, in cui si è sviluppata sino all’assurdo la facoltà di trarre pensieri dai nostri atti, anziché quella di identificare gli atti con i pensieri.
Se la nostra vita manca di zolfo, cioè di una costante magia, è perché ci compiacciamo di contemplare le nostre azioni e di perderci in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni, anziché lasciarci condurre da esse.
Si tratta di una facoltà esclusivamente umana. Direi anzi che è questa infezione dell’umano a contaminare idee che sarebbero dovute rimanere divine; poiché lungi dal ritenere il soprannaturale e il divino un’invenzione dell’uomo, io penso che l’intervento millenario dell’uomo ha finito per corrompere il divino.
[…]
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi 2000.