Due apocrifi di Marco Ercolani con un discorso sullo “stile apocrifo”
La divina sproporzione
Nel 1549, in occasione della ristampa del suo Gargantua e Pantagruele, François Rabelais si difende da una lettera anonima che lo accusa di oscenità.
1 agosto 1549
Signore,
voi ripetete che organizzo con le parole un ”grottesco carnevale del corpo”; che addirittura sono un “laido cantastorie” che vomita i suoi “empi lazzi”. Mi interrogate su perché e come la mia opera sia “bassa”, fatta di vento del ventre, di cose oscure, laide, volgari; affermate che è “indecente” la mia visione del mondo: queste le vostre precise parole.
Io rispondo subito ai vostri occhi opachi, che non vedono il vento vero. Ricordate il mito di Proserpina? Proserpina è rimasta sottoterra non come una prigioniera da liberare ma come una donna che deve crescere. E, alla fine, la follia non è forse proprio questo? Diventare quello che siamo? Essere così saggi da non seguire altra regola che questa, vasta e profonda, di farsi portare dal vento nuovo per terre mirabili dove tutto, puro e impuro, può accadere, non solo i fatti leggendari e bislacchi dei miei Giganti ma tutte le cose che voi neppure immaginate e che sono sepolte nella mente dei reclusi, nella loro mente e solo nella loro?
Voi pensate che, per scrivere il mio Gargantua, io non abbia forse rischiato la pazzia? Voi ricordate come finisce il libro? Con il vento che spinge la nave verso altre rotte. Se il Graal è solo un boccale di birra con cui sbronzarsi, fine della sacra ricerca. Si torna naviganti. Questo è il senso unico della vita, la sua abbagliante inutilità.
Eserciti bloccati nella neve in epoche remote, dentro battaglie mute, con urla che non escono alla luce, le parole gelate nell’aria: ecco, io le voglio disseppellire dal ghiaccio, dove sono inudibili, voglio che risuonino ancora. Non c’è nulla, oltre la vita bastarda sporca scurrile festosa turpe potente petica salmastra cupa sghemba mortale. Nulla, nient’altro da dire. E allora bisogna dirlo! Chi scrive scriva di questo e non di simulacri. Da tempo gli scudi sono polvere sporca. Basta.
Se poi verrò accusato di blasfemia e di esagerazione, sia pure! Senza la divina sproporzione non c’è la vita ma serre asfissianti e putride prigioni. Si ingabbiano esseri sensibili perché smettano di esserlo: non è questo il limpido senso politico della sporca e storta pazzia?
Non ho nulla di cui giustificarmi se non ciò di cui voi stessi sareste accusati: vivere. Tutte le mie storie hanno un senso definito: basta capire di che cosa sono allegorie, e quindi studiare, studiare, studiare. La loro apparente mostruosità è un problema solo per chi preferisce le tenebre dell’ignoranza.
Non ho altro da aggiungere. Se volete notizie più dettagliate, interrogatemi con un’accusa più precisa di questa, sciocca e vergognosa, di procurare uno scandalo che non c’è. Io raffiguro l’inferno con le parole, e da sempre, fin dalla Comedia di Dante, è così.
A me le parole talvolta fanno ridere, tanto sono impaurite, deboli, minuscole. Neppure per un attimo rendono visibile il sentimento del mondo che è necessario raffigurare. Ma sono loro la materia che devo stirare, gonfiare, impazzire, sbeffeggiare. Sono loro la mia vela lacera, i sensibili esseri che non voglio restino più nella bara del non detto.
Con ossequio a voi, signore, adesso bevo.
Bevo finché non smetterò e non sarà presto.
Rabelais
*
Lepanto
Ancora prima di ideare il suo Don Quijote, Miguel Cervantes, ferito nella battaglia di Lepanto e incarcerato, scrive dalla sua cella, il 1 ottobre 1605, una lettera in cui progetta l’invenzione di un nuovo eroe non solo letterario.
Caro T.,
vorrei proprio inventare un personaggio che renda reali i libri che ha letto e opponga la fantasia della parola a questo mondo che produce guerre e massacri, a questo mio braccio ferito, dimostrare che la realtà può essere polverizzata dai sogni della letteratura. Si chiamerà Don Qujote, il mio eroe, e ingaggerà comiche ma fierissime battaglie per dimostrare l’evidenza del sogno nel mondo reale che vorrebbe estirparlo.
Noi morremo, caro amico, ma lui resterà.
Le chimere restano, signore. Non esiste che il fumo della Chimera: gli uomini tutti vagano dentro quel fumo.
Dalle ferite sto guarendo, guarirò anche dal ricordo dei morti, ma dai miei sogni non voglio guarire. Così sarà per il mio strampalato Cavaliere dalla Triste Figura: lascerà la sua biblioteca, che narra di favolosi cavalieri erranti, per imporre al mondo il suo fantastico libro di avventure. Già mi prefiguro quando scenderà nell’Ade, l’Ade sarà la caverna di Montesinos e lì il Cavaliere resterà lì dentro poche ore ma crederà di esserci stato sommerso per tre giorni e quando, issato dalle funi, racconterà al fedele scudiero Sancho le sue incredibili visioni, già prefiguro le cose magnifiche che dirà, i suoi splendidi incubi. Non vedo l’ora di narrare quel comico inferno che obbedisce alla smisurata legge della fantasia immaginante.
Si riderà, certo, del mio hidalgo maltrattato e offeso dal mondo perché vuole difendere inesistenti damigelle. Si riderà di lui e con lui, perché tutti i poeti sono irrisi e offesi e rischiano la morte per dare verità alle loro fantasie ma non si pentono mai di avere fantasticato, perché questa è la loro unica realtà. Alla fine tutti rispetteranno Don Quijote: lui sarà stato quello che gli altri cercavano di essere e non furono, meschini e noiosi notabili dell’universo reale: lui solo sarà quello che ha desiderato essere, trasformando le favolose storie degli antichi cavalieri nel regno reale del Libro che percorre da eroe in mia compagnia. Solo dalla finzione arriva l’autentica verità di noi.
E quando Quijote morrà rinsavito, nel normale finale che dovrò ahimé scrivere, non potrà, quella morte, che coincidere con la fine del libro. Fine del libro: fine di tutto. Chi potrebbe sopportare la noia uniforme di un mondo utile e ragionevole dopo che è stato traversato da Ronzinante, da Don Quijote, dal fedele scudiero Sancho Panza? La follia è feconda madre di sogni e di maschere, e il mondo è nulla ai confronti dell’utopia del libro. Anzi, non esiste che il libro, perché nelle sue pagine tutto trova una magica, folle, ritmica comprensibilità, e nel teatro della scrittura si capovolge con felice ironia, per chi legge, ogni legge. Chi, dopo aver conosciuto il mio futuro Don Quijote e goduto delle sue avventure fantastiche, oserà riaderire senza disgusto al normale modello del mondo, al noioso resoconto delle “cose vere”? Sporco, ferito, alto, strampalato, eroico, il mio eroe non si ritira dal mondo: gli si getta addosso. I mulini sono giganti da sconfiggere, tutto è sproporzione e sogno. Da quel sogno non ci si deve svegliare. Le persone sveglie sono persone morte.
Oh se a Lepanto, dove fui ferito a questa povera mano, Don Quijote avesse combattuto al mio fianco! Avrebbe trasformato quei banali e gonfi cadaveri di guerra nell’esercito favoloso di diavoli sterminati da dèi potenti, e il mare e le navi sarebbero state illuminate dal bagliore di un sogno di gloria e non solo dalle fiamme accese dai mercenari.
Il mio libro, il mio Sogno, saranno benevoli all’uomo.
Vostro Miguel
Esistono nodi irrisolti e dolenti, nella vita e nell’opera di un artista, che non invitano a spiegare o a capire ma ad indagare ancora, come se certe domande esigessero sempre, dal mondo dei vivi, una risposta. A partire da tracce reali e indizi verosimili – frammenti di lettere, aneddoti, cronache, taccuini – è un gioco perturbante, per lo scrittore apocrifo, reinventare, reimmaginare, entrare di nuovo in quelle vite e in quelle opere: trasformare, correggere, risognare il passato. Chiedere a certi destini, consegnati alle cronache della storia, di tornare incompiuti, di esibirsi sul palcoscenico di un racconto per svelare ancora il loro segreto. Pur restando tale, quel segreto ci parlerà di come, fin dall’inizio, l’arte non sia stata che un lungo combattimento per la ricerca di una verità poetica, intima e assoluta, da conquistare attraverso le meraviglie della finzione. In racconti “impossibili” succedono cose impreviste: un dettaglio si evidenzia, un paesaggio si sfuoca, un sogno si compie, una voce si rivela, una visione si forma.
La condizione paradossale dell’autore apocrifo è creare un testo impossibile che, mentre viene scritto, diventa possibile dall’interno di una scrittura-ombra che va alla caccia dei suoi fantasmi e naviga nel mondo delle ipotesi e delle congetture, dei commenti e delle fantasie, del vero e del falso, in una terra instabile e metamorfica che si impone come la sola necessaria e reale. Avendo l’ambizione di trovare, nelle opere che reinventa dal passato, le diverse maschere di se stesso, crea dei “falsi d’anima”. Certe angosce e visioni del nostro tempo possono esercitare un feedback critico su quel passato. La possibilità di questo feedback sovverte la bloomiana “angoscia dell’influenza” esercitando, al contrario, una “gioia dell’influenza” che fa della letteratura non un repertorio di performances interrotte dalla morte ma un’enciclopedia “in divenire” di vite, destini e opere sempre viventi e cariche di potenzialità ulteriori.
Se è vero, come scrive il poeta greco Georgos Seferis, che “le responsabilità cominciano dai sogni”, allora ognuno deve assumere dentro di sé, come regola fondamentale, la ricerca dei modi e delle forme in cui chiarirsi un sogno che non è soltanto suo. È evidente la natura doppia e insidiosa di una narrazione che induce a “mettersi al posto dell’altro”, per rendergli omaggio e farlo rivivere, ma anche e contemporaneamente per espropriarne la parola, per annullarlo sostituendosi a lui. Si tratta di un ambiguo rubare-possedere la parola, di un resistere in una zona di confine dove chi dice io comunque mente, sia perché non è l’autore a cui viene attribuito il testo sia perché chi si sostituisce all’autore prescelto comunque realizza un falso. In questa doppia falsità, rifranti da maschere e specchi, si sviluppano come un sogno di verità le fantasie che agitano la mente dello scrittore.
Non c’è nulla di più fecondo di questo parlare obliquo, non sapendo mai da dove arrivi e dove giunga la verità. Non c’è nulla di più sincero che parlare attraverso continue rifrazioni, che colgono la verità esattamente per quello che è: il riflesso di un sogno che forse non era neppure il nostro sogno. Si mette in agguato. Sorveglia. Poi capta delle vibrazioni sonore, delle particolari risonanze. Allora si mette in posizione e aspetta la preda: passa, guizza, e la afferra; la tiene tra le mani, ha il tempo di osservarla per un attimo, di intuire una vaga somiglianza fra il suo occhio atterrito e il proprio, e poi la lascia libera. È solo in questo momento che può scrivere del suo incontro con essa, esattamente come un critico parlerebbe di un’opera di Dante o di Boccaccio. La verità è solo nell’attimo magico di una risonanza che genera. Il compito dello scrittore apocrifo ha qualcosa in comune con l’esercizio della caccia: scrivendo, stana delle prede nascoste. un effetto: la scrittura è il ralenti di questo incontro, la sempre inadeguata, forsennata, a tratti impotente descrizione di questo incontro dove l’io è l’altro e l’altro è l’io. Le verità che ammira sono immagini viste in sogno e soprassalti del dormiveglia. Aritmie della percezione.