Esperienze

Per le vertigini. Su «Poesie» di Danilo Kiš, Finis Terrae, 2022, di Stefano Bottero

 

Nel 1973 Corrado Costa scrive: «gli oggetti continuano ad esistere. / il pittore tende a non avere nessuna possibilità / di esistenza». Osserva così che l’interruzione del continuum tra formalità e Significato nell’opera è discorso ontologico – non più, ormai, questione solamente estetica. In questi termini Costa focalizza il punto di rottura di una crisi epocale messa in moto, meno di settant’anni, prima da Paul Cézanne. Punto in cui – e da cui – l’essere forma dell’opera e la sua realtà affermata-affermante sono scisse del tutto. L’impossibilità di esistenza dell’artista è un fatto che si oppone alla materialità resistente dell’oggetto osservato, unica res che «continua». Generazionalmente parlando, in questa affermazione di Costa si avverte l’esaurirsi della dialettica occidentale esistenzialista del Ventesimo secolo. L’osservazione della fine non è più la fase terminale di un sistema di esistenza che prescrive il declino, ma una parte attuale dell’esser-ci.

Per Danilo Kiš tutto questo è radice poetica, impulso formale. Nei suoi versi, l’autore «jugoslavo che scrive in serbo-croato» (come secondo la definizione che dà di sé stesso) pone in essere questa specifica qualità tragica dello sguardo. Se anche l’oggetto osservato dall’artista, dal poeta, esiste e continua ad esistere, all’Io questa «possibilità di esistenza» è negata. Non si tratta, tuttavia, di premessa di annichilimento del sé, ma del percorso che porta all’espoliazione dall’assertività poetica. In bocca non più l’affermazione di sé – la violenza insita all’essere in vita, ma prossimi alla fine. Il senso del cambiamento interviene nel privato come sinonimo di manomissione: il dover finire è per Kiš non solo fenomeno empirico, ma realtà progressiva. È una prassi costante, che orienta il rapporto dell’Io, del poeta, con la forma.

Quel che è successo
assomigli a molto a un aborto
dove fra coito e parto
si confondono i confini del tempo
e tutto succede
in una impossibile simultaneità

Queste ragioni orientano la scelta di copertina della recente edizione italiana delle poesie di Kiš – pubblicata in ottobre da Finis Terrae, a cura di Margherita Carbonaro e Slavo Šerc. La verticalità del legno, il suo scorrimento lineare, è mostrato dallo scatto di Carbonaro come una stratificazione ulteriore alla persona. Su di essa si svolge la profondità della muffa, dei licheni, della vita che non smette. È traiettoria di rinnovamento, profondità libera dalla stratificazione che attanaglia, al contrario, l’andamento del privato – di cui scrive:

qui niente è senza
memoria
queste sono ossa

le ruote sono azionate
dalle fasi lunari

di giorno ci giocano
i figli del sole
finché non crollano
per le vertigini

Il concetto si rivela con chiarezza guardando alle opere del pittore Leonid Seika inserite nell’edizione ungherese della raccolta. Se quello dell’Io è movimento destinato ad annodarsi, a spezzarsi per sua stessa specie, all’oggetto è garantita la complessità del co-esistere. La prospettiva lineare è infatti categoria della vita, esaltazione del percorso. Intercorsa la fine, essa non ha ragione di essere. I tratti si moltiplicano nell’indistinto, a guisa di sciame. Nei «passaggi dall’onirico al grottesco», come secondo i curatori dell’edizione, si manifesta la sua cifra come autore – tra le maggiori del suo tempo. Il correlativo figurale, indispensabile per intenderne l’essenza nella scrittura, ha il tratto pesante del grottesco, distorce le proporzioni e nega la prospettiva – motivo centrale nell’opera dello stesso Costa. L’osservazione della morte, in questo senso, si rivela come momento estremo di una dialettica paradossale: esistere nel non poter continuare a farlo. Il paradosso del descrivere le costruzioni di sabbia, appena prima che la riva si alzi.

Dopodiché calarsi sul fondo del mare
e prendere un polipo (il più grande possibile)
fissarlo alla roccia con un arpione o grossi chiodi e
aprire per il lungo i tentacoli con una lama affilata
A sangue freddo osservarlo morire
Prendere quindi una grande rosa rossa
e staccare lentamente i petali

uno
per
uno

Diminuzione del vivere come realtà in sé. Kiš supera così il nichilismo del Novecento, bypassa i margini trackliani del declino inteso come discesa nel buio. In questo la sua poetica prefigura la cifra dell’esistenzialismo a noi più contemporaneo – quello dell’apatia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *