Fascinazioni

Gian Maria Volonté

 

“Decisi che non volevo più fare cinema perché avevo bisogno di un momento di riflessione. Mi sentivo dentro fino al collo in un meccanismo che non approvavo; a un ritmo di lavoro che non mi lasciava neppure il tempo di pensare. Avevo bisogno, direi un bisogno vitale, di fermarmi. E mi sono fermato. Quasi un anno, molto importante per me. E questo anno di riflessione mi ha permesso di denunciare qual è il rapporto che intercorre tra l’attore e il tessuto sociale. Vale a dire che l’attore è lo strumento di una classe e come tale retribuito in un certo modo, proposto in un certo modo, proprio perché utile alla borghesia. Il momento di riflessione mi era indispensabile, prima di tutto per poter chiarire il discorso con me stesso e poi per poterlo portare avanti”.

Da un’intervista con Marlisa Trombetta, in “Vie Nuove”, n.49, dicembre 1969.

“Per anni l’autore ha negato all’attore la possibilità di portare un contributo linguistico. Per l’autore tutto è un segno che serve per proporre la sua idea: quindi anche l’attore si riduce a segno, a oggetto. La mia opinione, invece, è che l’attore può portare un contributo linguistico senza per questo sottrarre nulla all’autonomia e alla libertà di espressione dell’autore. Questa ricerca di equilibrio, di un rapporto dialettico tra autore e attore, dovrebbe sfociare in un ruolo dell’attore più civile e moderno, ossia in una maggiore responsabilizzazione e crescita intellettuale dell’attore. Certo, quando l’attore è disponibile a tutto, privo di una sua presa di coscienza, non può essere portatore di cultura, ma solo di virtuosismo e di abilità tecnica e professionale. La crescita di cui parlo, dovrebbe invece determinare la nascita di un attore più cosciente e responsabile, e quindi in grado di portare un contributo non legato solo alla bravura e al virtuosismo, ma ad una determinata concezione delle cose. Nel mio caso io cerco di dare un contributo linguistico al film. Questo avviene sia prima che inizino le riprese, sia durante le riprese. Perché ho scelto questa parola? L’ho usata per un motivo preciso, proprio perché dare un contributo linguistico vuol dire cercare di sottrarsi all’essere solo un oggetto. Io sono per la partecipazione critica, e per un rapporto dialettico con la materia complessiva del film, com’è organizzata, vista e raccontata dall’autore. Può darsi che questo in un certo tipo di cinema non accada, o accada meno. Comunque, laddove non accade, è un cinema che a me interessa poco”.

Gian Maria Volonté, 1979.

“Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia; io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso. C’erano stati dei segni, irrazionali se si vuole: come la morte di Pasolini, col suo significato oscuro e profondo. Ho visto Franco Solinas non riuscire a fare sceneggiature per tanti anni. E poi è morto. Ho visto Elio Petri  non poter far film. E poi è morto. Io cerco ancora di scegliere: anche se è motivo di stupore che un attore voglia decidere il proprio destino”.

Da “Bella carriera, è stata tutta una fuga”, intervista di Lauretta colonnelli in l’Europeo 13 agosto 1983.

“Io accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta qui di dare una definizione del cinema politico, cui non credo, perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti. Io cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c’è la necessità di intendere il cinema come un mezzo di comunicazione di massa, così come il teatro, la televisione. Essere attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressiste di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita”.

Gian Maria Volonté, 1984.


G. M. Volonté, Lo sguardo ribelle, Fandango 2004. A cura di Franco Montini e Piero Spila.

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