Esperienze

Blanchot e la fascinazione del racconto, di Giuseppe Zuccarino

 

Non è insolito che uno scrittore decida di pubblicare, a distanza di parecchi anni, la versione modificata di un proprio romanzo. Spesso ciò avviene perché, sollecitato dall’editore a rimettere in circolazione un volume la cui tiratura è ormai esaurita, l’autore coglie l’occasione per rileggere e ritoccare il testo, migliorandolo dal punto di vista stilistico. Sono rari, invece, i casi in cui la seconda versione differisce radicalmente dalla prima, pur conservando il titolo originale e le grandi linee della trama. È quanto accade nel passaggio dall’una all’altra edizione (1941 e 1950) del volume di Maurice Blanchot Thomas l’Obscur, visto che la seconda è molto più breve della precedente[1].

Come si spiega una scelta così insolita? Rivolgendosi in sede epistolare all’amico Georges Bataille, Blanchot gli confida nel 1948: «Ho messo a punto in questi giorni una versione diversa di Thomas l’Obscur. Diversa nel senso che riduce di due terzi la prima edizione. Si tratta però di un vero libro e non di brani di libro; posso persino dire che non è in causa un progetto di circostanza o ispirato da compiacenze editoriali, ma ci ho pensato spesso, perché ho sempre avuto il desiderio di osservare attraverso lo spessore dei primi libri – così come si vede in un occhialino l’immagine piccolissima e lontanissima di ciò che sta fuori – il libro piccolissimo e lontanissimo che mi sembrava esserne il nucleo»[2]. Non sappiamo quale sia stata la reazione di Bataille, ma in un’altra lettera, ben più tardiva, Blanchot ricorda quella di un altro amico, il critico Jean Paulhan, all’annuncio della riscrittura in corso di Thomas l’Obscur: «Mi disse: la prego, non tocchi quel che è già stato pubblicato. Ma quando lesse la seconda versione, affermò: Ah, come ha avuto ragione!»[3].

Blanchot riferisce ciò a Pierre Madaule, ma evidentemente senza riuscire a convincerlo dell’idea che la versione del 1950 sia da preferire a quella del 1941. Infatti, dopo il decesso dell’autore, l’edizione più antica verrà ripubblicata proprio con una prefazione di Madaule. In essa egli sostiene la netta superiorità della stesura originaria del romanzo rispetto alla successiva e arriva persino a ipotizzare che proprio questo può aver indotto Blanchot a ostacolare la possibilità, per il lettore, di effettuare il confronto: «Si capisce allora come sia accaduto che, di fronte alla prospettiva di ufficializzare tramite une riedizione una così disastrosa concorrenza (disastrosa per la nuova versione), l’autore si sia sempre astenuto dal ricordare pubblicamente l’importanza e la necessità di frequentare anche, e anzi soprattutto, la prima versione»[4]. Forse però il problema è mal posto: non si tratta, infatti, di interrogarsi su quale delle due stesure dell’opera sia superiore all’altra, bensì di considerarle per ciò che sono, ossia due libri differenti, entrambi meritevoli di lettura e di attenta considerazione critica.

Nella breve avvertenza posta in apertura della seconda edizione, Blanchot manteneva l’ambiguità, sostenendo che quella che stava proponendo era, e al tempo stesso non era, un’opera nuova: «Alle pagine intitolate Thomas l’Obscur […], pubblicate nel 1941, la presente versione non aggiunge nulla, ma siccome toglie loro molto, è lecito dirla diversa, e persino interamente nuova, ma anche del tutto simile, se, tra la figura e ciò che ne è – o si crede ne sia – il centro, si ha motivo di non distinguere, ogni volta che la figura completa esprime, di per sé, solo la ricerca di un centro immaginario»[5]. L’idea che l’opera narrativa possa essere, per così dire, centripeta era già stata espressa da Blanchot in un articolo nel quale asseriva: «Sono dunque un certo orientamento, un’attrazione misteriosa, la circolazione di tutti gli elementi dell’opera in rapporto a un centro invisibile, e in continuo movimento, che possono rivelare meglio il carattere valido di un romanzo»[6]. E più tardi, nella nota iniziale di L’espace littéraire, ribadirà che ogni libro «ha un centro che lo attrae: centro che non è fisso […], che si sposta, se è un vero centro, restando lo stesso e divenendo sempre più centrale, più riposto, più incerto e più imperioso. Chi scrive il libro lo scrive per desiderio, per ignoranza di questo centro»[7].

Si può notare che il titolo Thomas l’Obscur richiama per la sua struttura quelli di romanzi anteriori, come Jude the Obscure di Thomas Hardy (1895), Simon le pathétique di Jean Giraudoux (1918) e Thomas l’imposteur di Jean Cocteau (1923)[8]. In maniera forse più fantasiosa, certi critici hanno ricondotto il nome proprio a quello di Tommaso, l’apostolo incredulo di cui si parla nel Vangelo di Giovanni, e l’epiteto «l’Oscuro» all’appellativo tradizionale di Eraclito[9].

La prima edizione del romanzo resta quella più ricca e complessa, tanto sul piano della scrittura quanto su quello della trama. Tuttavia occorre riconoscere che Blanchot ha le sue ragioni quando decide di elaborarne una nuova stesura: vuole infatti che essa risulti aderente alla seconda fase delle sue opere letterarie, quella che segna il passaggio dai romans ai récits. Per lui non si tratta soltanto di adottare una forma più breve, meno interessata agli eventi raccontati, ma di lasciare emergere qualcosa di diverso, ossia «la voce narrativa»[10]. Con questa espressione non intende riferirsi alla voce del narratore esterno (l’autore del testo) e neppure a quella dell’eventuale personaggio narrante interno al libro stesso. Ritiene infatti che, nel récit, a parlare sia una voce impersonale, neutra; in tal senso, diviene indifferente che essa si esprima tramite la prima o la terza persona, poiché di fatto «ciò che si racconta non è raccontato da nessuno»[11]. Questo determina un cambiamento di rilievo, per cui «i soggetti d’azione […] cadono in un rapporto di non-identificazione con se stessi: accade loro qualcosa che possono cogliere solo rinunciando al potere di dire “io”, e ciò che sta loro accadendo gli è sempre già successo: essi non potrebbero renderne conto che indirettamente, come dell’oblio di se stessi, il quale li introduce nel presente senza memoria della parola narrante»[12].

Tutto ciò può apparire molto astratto, ma si chiarisce almeno in parte alla lettura di Thomas l’Obscur, libro che, nella sua nuova versione, diviene assimilabile alle opere della «seconda maniera» blanchotiana, vale a dire L’arrêt de mort, Au moment voulu, Celui qui ne m’accompagnait pas, Le dernier homme e L’attente l’oubli[13]. Il passaggio di Thomas l’Obscur dalla forma roman alla forma récit mostra con particolare evidenza tanto il prosciugamento della trama narrativa, quanto un altro aspetto che da ciò consegue, ossia la drastica limitazione del numero dei personaggi significativi, che nel caso specifico si riducono a due.

All’inizio del racconto, vediamo il giovane Thomas seduto sulla spiaggia, mentre osserva il mare e i movimenti dei nuotatori, finché, raggiunto da un’onda spintasi fino a lui, decide di tuffarsi a sua volta nell’acqua. Ben presto il mare diventa più agitato, sicché egli si trova ad essere sballottato dai flutti, situazione descritta in maniera insolita: «Le sue membra gli diedero la stessa sensazione di estraneità che l’acqua entro cui stavano rotolando. Tale sensazione gli parve dapprima quasi gradevole. Continuando a nuotare, proseguiva una specie di fantasticheria nella quale si confondeva col mare. L’ebbrezza di uscire da sé, di scivolare nel vuoto, di disperdersi nel pensiero dell’acqua, gli faceva dimenticare ogni malessere. E anzi, quando il mare ideale in cui si stava tramutando in maniera sempre più intima fu divenuto a sua volta il vero mare in cui egli era come annegato, non fu commosso quanto avrebbe dovuto: c’era senza dubbio qualcosa di insopportabile nel fatto di nuotare così all’avventura con un corpo che gli serviva solo a pensare di nuotare, ma egli avvertiva anche un sollievo, come se finalmente avesse scoperto la chiave della situazione e tutto si fosse limitato, per lui, a continuare il suo viaggio interminabile con un’assenza di organismo in un’assenza di mare»[14]. Come si vede, quella che potrebbe essere la condizione di un nuotatore nella vita reale viene tramutata in uno svanire quasi metafisico dell’identità individuale, in una perdita del limite che dovrebbe mantenere separati il corpo e la mente di un essere umano dalle onde marine entro cui sta nuotando. Nonostante ciò, Thomas riesce comunque a tornare sulla riva[15].

Altrettanto enigmatici sono gli sviluppi successivi del racconto. Verso la fine della stessa giornata, quando ormai sono calate le tenebre, il protagonista discende in una specie di scantinato, nel quale «la notte gli parve più oscura, più terribile di qualsiasi notte, come se fosse realmente uscita da una ferita del pensiero che non si pensava più, del pensiero preso ironicamente come oggetto da qualcosa di diverso dal pensiero»[16]. Nel buio, egli sperimenta un’angosciosa compenetrazione fisica con la notte, cosa che porta a termine la sua trasformazione in un individuo a parte, diverso per essenza dalle persone comuni. Continua ad avere qualche contatto con queste ultime, nell’albergo in cui risiede, ma si rende subito conto che la possibilità di dialogare e di rapportarsi ad esse in maniera normale è venuta meno. Ciò vale anche riguardo a una bella ragazza, Anne, che pure dimostra simpatia e interesse nei suoi confronti. D’ora in poi, qualunque sia la situazione in cui Thomas si trova, il suo comportamento è destinato a risultare incomprensibile e sgomentante, sia per gli altri che per lui stesso. Ad esempio, mentre è intento a leggere nella propria camera, dapprima si sente osservato dalle parole del testo che ha di fronte, poi una di esse si tramuta in una sorta di topo gigantesco, che lo assale e con cui egli deve combattere. Metamorfosi di questo genere sono del resto frequenti nel corso del racconto. In un’altra occasione, lo ritroviamo mentre di notte scava una fossa nel terreno e tenta di sprofondare in essa senza riuscirci, perché è come se la tomba risultasse già occupata da un diverso se stesso ridotto allo stato cadaverico.

Anche Anne, che pure vorrebbe entrare in rapporto con Thomas, è spaventata dalla morte che emana dal giovane e che si trasmette a tutti: «Egli penetrava in una regione in cui, se spariva, vedeva gli altri cadere subito in un altro nulla, che li allontanava da lui più ancora che se avessero continuato a vivere. Su quella strada, ogni uomo che incrociava moriva»[17]. Si tratta di una distruzione immaginaria, presentata però come se fosse reale, poiché nella scrittura narrativa di Blanchot una certa indistinzione fra i due piani, metaforico e letterale, è voluta e programmata. Anne resiste più degli altri all’annichilimento provocato dal pensiero di Thomas. Fra loro due si stabilisce persino una relazione amorosa, alla cui normalità la ragazza si sforza di credere. Il giovane sembra in parte assecondarla, finché lei commette un errore fatale: quello di chiedergli chi sia. Subito dopo aver formulato la domanda, Anne si rende conto del rischio a cui si esporrebbe se lui le rispondesse, evidenziando l’insuperabile distanza che li divide, quindi gli impedisce di parlare. Non rinuncia però al tentativo di ricondurre l’assoluta estraneità di Thomas a un’impossibile dimensione quotidiana. Vorrebbe poter dare una definizione dell’amato, ma non ci riesce, anzi finisce semidistrutta dall’insano sforzo di comprendere un essere così intriso di notte e di morte.

Da questo momento in poi, la vita della ragazza si riduce a una precaria sopravvivenza, e anche il suo rapporto con Thomas perde significato: «Ad Anne sembrava che il mistero di quell’essere fosse passato nel cuore di lei, proprio là dove non poteva più essere colto se non come una domanda eternamente mal posta. […] Poteva pure osservarlo con gli sguardi torbidi della passione decaduta. È come l’uomo meno oscuro che egli usciva dalla notte, immerso nella trasparenza per via del privilegio che lo poneva al di sopra di ogni interrogazione»[18]. Anne è ormai gravemente malata, tuttavia il suo non è un cedimento rassegnato alla morte (a cui sa bene di essere destinata entro breve tempo), poiché al contrario lei è decisa a mantenere il più possibile l’attaccamento alla vita e una chiara coscienza della propria condizione.

Dopo il decesso dell’amica, Thomas appare molto afflitto, ed esprime i propri pensieri tramite un lungo monologo. Riflette sul nobile comportamento di Anne durante la malattia e si prepara a sua volta al trapasso, che tuttavia non potrà mai essere quello di un individuo normale: «Certo, io potevo morire, ma la morte brillava perfidamente per me come morte della morte, cosicché, diventando l’uomo eterno che si sostituisce al moribondo, quell’essere incolpevole e senza motivo di morire che è ogni uomo che muore, io morivo, morto così estraneo alla morte che trascorrevo il mio istante supremo in un tempo in cui non era già più possibile morire»[19].

Thomas s’inoltra nella campagna, mentre la luce del sole primaverile fa proliferare le piante e gli animali, compresi quelli inesistenti («alberi senza frutti», «fiori senza fiori», «libellule senza elitre», «rospi ciechi»[20]). Il paesaggio attraversato dal giovane è quello di una natura in pieno fermento, mentre quando egli raggiunge la vicina città la trova deserta, poiché moltissime persone, uscite da essa, vagano all’aperto e finiscono col seguire Thomas, che si dirige adesso verso il mare. Da ultimo, gli esseri umani «riconobbero l’oceano […], videro nell’infinito un’immagine di cui godevano e, cedendo a un’ultima tentazione, si denudarono voluttuosamente nell’acqua»[21]. Per quanto si parli di voluttà, il loro gesto non va inteso come nel celebre verso di Valéry: «Corriamo all’onda per riemergerne vivi!»[22]. È in causa piuttosto una dissoluzione che azzera l’esistente. Possiamo ricordare in tal senso un passo del Blanchot critico letterario, in cui si legge: «Ogni uomo è Noè, ma in una strana maniera, se ci pensiamo bene, e la sua missione consiste, più che nel salvare tutte le cose dal diluvio, nell’immergerle invece in un diluvio più profondo, in cui esse scompaiano in modo prematuro e radicale»[23]. Quella che in sede saggistica viene presentata come un’operazione mentale diventa, nell’opera narrativa, l’epilogo della vicenda.

Neppure il protagonista sfugge a tale destino: «Anche Thomas guardò questo flutto d’immagini grossolane, e poi, quando venne il suo turno, vi si precipitò, ma tristemente, disperatamente, come se la vergogna fosse iniziata per lui»[24]. Il racconto termina dunque allo stesso modo in cui aveva preso avvio: con l’immersione di Thomas nelle acque marine. Ma lo stato d’animo del personaggio è ora improntato a tristezza e imbarazzo. Nelle parole finali del testo è possibile riconoscere l’eco di quelle che concludevano un’opera cara a Blanchot, Il processo di Kafka: «Fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli»[25].

Anche soltanto da una schematica sinossi come quella qui proposta, emerge il fatto che Thomas l’Obscur è un’opera, a dir poco, insolita e sfuggente. Tanto più sono da ammirare coloro che, già nel leggere la prima e più ampia versione del libro, avevano colto con acume certi aspetti della sua singolarità, destinati ad accentuarsi nella stesura del 1950. È il caso di Jean Paulhan, il quale osservava che «si tratta di un romanzo concepito pressappoco al modo in cui Mallarmé concepiva le proprie poesie, e che suscita imbarazzo per via del suo lato sistematico (un po’ troppo astratto): di una metafisica (non dualista) troppo dichiarata, troppo evidente, ma la cui applicazione resta sottile, intelligente – spesso affascinante»[26]. Il poeta simbolista non è l’unico autore che può fungere da punto di riferimento per il Blanchot narratore; egli stesso, nei suoi scritti critici degli anni Trenta e Quaranta, ne ha indicato anche altri, come Jean Paul, Melville, Lautréamont, Giraudoux, Virginia Woolf[27]. Tuttavia il richiamo proposto da Paulhan risulta pertinente, visto che nel 1943 Blanchot pubblica un articolo dal titolo Mallarmé et l’art du roman[28]. Titolo a prima vista paradossale, se si considera che il poeta in questione non ha mai scritto romanzi, pur essendo stato fra i primi a tentare, col racconto incompiuto Igitur, la via di una narrazione astratta[29]. Ma non soltanto per questo può rappresentare un modello per i prosatori. Dopo aver ricordato alcune frasi tratte dalla celebre lettera in cui Mallarmé esponeva il proprio sogno di scrivere un libro assoluto, «architettonico e premeditato», dotato di un ritmo «impersonale e vivo»[30], Blanchot sostiene che in tali frasi si manifesta «una concezione così profonda del linguaggio, una visione così ampia della vocazione delle parole, una spiegazione così universale della letteratura che nessun genere di creazione può trovarsene escluso. Lo scrittore che si vede costretto da una missione inquietante a costruire le rigorosità della finzione con le facilità offerte dalla prosa, è interpellato tanto direttamente quanto il poeta. […] Il destino del romanziere non è certo quello di farsi capire; egli deve piuttosto far percepire quel che non può essere inteso nell’inautentico linguaggio quotidiano. […] Seguendo la stessa via di ogni altro artista, va quindi verso quelle tenebre misteriose il cui contatto gli dà la sensazione di svegliarsi nel sonno più profondo, verso quella presenza pura in cui scorge tutte le cose talmente nude e ridotte che nessuna immagine ne è possibile, in poche parole verso quello spettacolo primordiale in cui non si stanca di contemplare ciò che può vedere soltanto grazie a una totale trasformazione di sé»[31]. Riconosciamo qui le tematiche, e il linguaggio stesso, di Thomas l’Obscur.

Ma esiste ancora un altro aspetto per cui il romanziere dovrebbe imparare dal poeta, e consiste nell’attitudine da adottare riguardo all’impiego delle parole. Essa viene chiarita in un altro saggio: «“A che scopo, dice Mallarmé, trasporre un fatto di natura nella sua quasi sparizione vibratoria, secondo il gioco della parola, se non perché ne emani, senza il fastidio di un prossimo o concreto richiamo, la nozione pura?”. In questa domanda, si trova un’indicazione degna di nota. La parola ha senso solo se ci sbarazza dall’oggetto che nomina: essa deve risparmiarcene la presenza o il “concreto richiamo”. Nel linguaggio autentico, la parola ha una funzione non soltanto rappresentativa, ma anche distruttiva. Fa sparire l’oggetto, lo rende assente, lo annichilisce»[32]. Se già la prima versione di Thomas l’Obscur manifestava questa tendenza, il che ne faceva un’opera narrativa anomala, «né romanzo d’avventura, né romanzo psicologico, né romanzo allegorico»[33], tale aspetto risulta accentuato nella versione breve. Per via della riduzione ai minimi termini degli aspetti propriamente narrativi, divengono più evidenti i passi in cui il linguaggio sembra impegnato ad autodistruggersi sul piano semantico, conferendo in tal modo autonomia alle parole. Facciamo solo un esempio fra mille: «La prospettiva in cui svanisco ai miei occhi mi restaura, immagine completa, per l’occhio irreale a cui vieto ogni immagine. Immagine completa in rapporto a un mondo senza immagine che mi raffigura nell’assenza di ogni figura immaginabile»[34]. Tramite questo procedimento le parole, nel momento stesso del loro prodursi, perdono in gran parte la loro funzione referenziale e vanno a collocarsi in uno spazio diverso, quello della prosa poetica, già praticata in vari modi da Mallarmé e dagli altri autori-modello che abbiamo ricordato.

Ciò tuttavia non fa di Blanchot un imitatore, poiché all’opposto egli ha saputo creare, nelle sue opere letterarie, un mondo decisamente originale, dapprima fantastico e ricco di eventi nei romanzi, poi sempre più rarefatto e impalpabile nei racconti. Le atmosfere che caratterizzano i suoi libri potranno forse apparire perturbanti e angosciose, ma questo non diminuisce la fascinazione che da essi emana, e che permane tuttora intatta.

Maurice Blanchot, Thomas l’Oscuro, il Saggiatore 2023


NOTE

[1] Cfr. M. Blanchot, Thomas l’Obscur, Paris, Gallimard, 1941 e la nuova versione del libro, pubblicata dallo stesso editore nel 1950 (tr. it. di quest’ultima Thomas l’Oscuro, Milano, Il Saggiatore, 2023). Un’altra stesura, risalente agli anni 1931-37, è stata pubblicata postuma: M. Blanchot, Thomas le Solitaire, Paris, Kimé, 2022.
[2] M. Blanchot, lettera a Georges Bataille del gennaio 1948, cit. in Christophe Bident, Maurice Blanchot partenaire invisible, Seyssel, Champ Vallon, 1998, p. 287.
[3] Lettera a Pierre Madaule del 2 marzo 1988, in M. Blanchot – P. Madaule, Correspondance 1953-2002, Paris, Gallimard, 2012, p. 44.
[4] P. Madaule, Retour d’épave, prefazione a M. Blanchot, Thomas l’Obscur. Première version, 1941, Paris, Gallimard, 2005, p. 12.
[5] Thomas l’Obscur (1950), cit., p. 7 (tr. it. p. 9; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso riportati con modifiche). D’ora in poi, per le citazioni faremo sempre riferimento a questa edizione.
[6] M. Blanchot, Paradoxes sur le roman (1941), in Chroniques littéraires du «Journal des débats». Avril 1941-août 1944, Paris, Gallimard, 2007, p. 118.
[7] M. Blanchot, L’espace littéraire, Partis, Gallimard, 1955, p. 7 (tr. it. Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967, p. 3).
[8] Simon le pathétique viene ricordato nell’articolo Les chances du réalisme (1942), in Chroniques littéraires du «Journal des débats», cit., p. 186. L’influsso stilistico di Giraudoux è evidente nell’edizione 1941 di Thomas l’Obscur, attenuato in quella del 1950. Sulle analogie e differenze fra i due autori, cfr. C. Bident, … au point de vacillement (d’un écart de Blanchot à Giraudoux), in AA. VV., Maurice Blanchot. Récits critiques, a cura di C. Bident e Pierre Vilar, Tours-Paris, Farrago-Léo Scheer, 2003, pp. 505-522.
[9] Cfr. Giovanni, 20, 19-29, in La Sacra Bibbia, tr. it. Milano, Garzanti, 1964, p. 1999, e la definizione fornita dal celebre lessico Suda: «Eraclito di Efeso, […] filosofo della natura, soprannominato l’Oscuro» (cit. in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, tr. it. Milano, Mondadori, 1980, p. 65).
[10] Cfr. M. Blanchot, La Voix narrative (le «il», le neutre) (1964), in L’entretien infini, Paris, Gallimard, 1969, pp. 556-567 (tr. it. La voce narrativa (la terza persona, il neutro), in L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977, pp. 504-514).
[11] Ibid., p. 564 (tr. it. p. 511).
[12] Ibidem.
[13] Si tratta di opere narrative edite da Gallimard tra il 1948 e il 1962 (solo due di esse sono state tradotte in italiano: L’attesa, l’oblio, Milano, Guanda, 1978 e La sentenza di morte, Milano, SE, 1989).
[14] Thomas l’Obscur, cit., p. 11 (tr. it. pp. 12-13).
[15] Per un’analisi approfondita di quest’episodio, si rinvia a Jean Starobinski, «Thomas l’obscur», chapitre premier, in «Critique», 229, 1966, pp. 498-513 (tr. it. «Thomas l’obscur», capitolo primo, in «Riga», 37, 2017, pp. 126-139).
[16] Thomas l’Obscur, cit., p. 17 (tr. it. p. 20).
[17] Ibid., p. 45 (tr. it. p. 49).
[18] Ibid., p. 76 (tr. it. pp. 79-80).
[19] Ibid., p. 103 (tr. it. pp. 106-107).
[20] Ibid., pp. 130-131 (tr. it. p. 133-134).
[21] Ibid., pp. 136-137 (tr. it. p. 139).
[22] Paul Valéry, Le Cimetière marin (1920), in Charmes, in Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, 1957; 1997, p. 151 (tr. it. Il cimitero marino, in Incanti, in Opere, Milano, Mondadori, 2014, p. 151).
[23] M. Blanchot, Rilke et l’exigence de la mort (1953), in L’espace littéraire, cit. p. 143 (tr. it. Rilke e l’esigenza della morte, in Lo spazio letterario, cit., p. 119).
[24] Thomas l’Obscur, cit., p. 137 (tr. it. p. 139).
[25] Franz Kafka, Il processo (1914-1915, edito postumo nel 1925), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1995, p. 205. L’analogia è stata notata da Jonathan Degenève, Ce qui vient après la fin. Les reprises dans les épilogues du premier Blanchot, in «Europe», 940-941, 2007, p. 123.
[26] J. Paulhan, scheda di lettura su Thomas l’Obscur di Blanchot, datata 7 aprile 1941, cit. in Éric Hoppenot, Chroniques des premières réceptions de «Thomas l’Obscur», in AA. VV., Défi de lecture: «Thomas l’Obscur» de Maurice Blanchot, a cura di Anca Cǎlin e Alain Milon, Paris, Presses universitaires de Paris Nanterre, 2017, p. 24.
[27] Cfr. in proposito François Brémondy, Un manifeste de l’antiréalisme, ibid., pp. 189-212. Ricordiamo per inciso che Jean Paul è il nome d’arte di Johann Paul Friedrich Richter.
[28] M. Blanchot, Mallarmé et l’art du roman, in Faux pas, Paris, Gallimard, 1943, pp. 187-196 (tr. it. Mallarmé e l’arte del romanzo, in Passi falsi, Milano, Garzanti, 1976, pp. 181-187).
[29] Cfr. Stéphane Mallarmé, Igitur ou La folie d’Elbehnon (1869-70, edito postumo nel 1925), in Œuvres complètes, vol. I, cit., pp. 471-500 (tr. it. Igitur o La follia d’Elbehnon, in Igitur – Un colpo di dadi, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 81-128).
[30] Espressioni usate nella lettera a Paul Verlaine del 16 novembre 1885, ibid., p. 788.
[31] Mallarmé et l’art du roman, cit., pp. 190 e 194 (tr. it. pp. 182 e 186).
[32] Le mythe de Mallarmé (1946), in La part du feu, Paris, Gallimard, 1949, p. 37. Le frasi mallarmeane provengono da Crise de vers, in Divagations (1897), in Œuvres complètes, vol. II, Paris, Gallimard, 2003, p. 213 (tr. it. Crisi di verso, in Opere. Poemi in prosa e opera critica, tr. it. Milano, Lerici, 1963, p. 258).
[33] Emmanuel Levinas, Carnets de captivité (1940-1945), in Œuvres, 1. Carnets de captivité et autres inédits, Paris, Grasset-IMEC, 2009, p. 188 (tr. it. Quaderni di prigionia e altri inediti, Milano, Bompiani, 2011, p. 194).
[34] Thomas l’Obscur, cit., p. 126 (tr. it. p. 129).

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