Jabès: la tradizione come avventura, di Giuseppe Zuccarino
Nel 1963, all’uscita di Le Livre des Questions di Edmond Jabès, Derrida rimane molto colpito dalla lettura del volume, tanto da dedicare ad esso un saggio, che apparirà in rivista l’anno dopo[1]. Il poeta egiziano viene a conoscenza di quel saggio prima ancora della sua pubblicazione, e comunica al filosofo il proprio entusiasmo: «È qualcosa di eccellente, e ci tengo a dirglielo subito. […] Le vie che lei apre sono quelle in cui mi sono arrischiato senza sapere in anticipo dove mi avrebbero condotto. Leggendola, le ritrovo così ben tracciate che mi pare di aver sempre conosciuto il loro nome»[2]. È l’inizio dell’amicizia fra i due autori, che si estenderà ben presto ad un terzo, da tempo sodale di Jabès e studioso della sua opera, ossia il critico letterario Gabriel Bounoure[3].
Com’è stato giustamente notato, il saggio in questione «non ha nulla di un commentario classico. Citando abbondantemente lo scrittore, insinuandosi tra le sue frasi per meglio prolungarle, il testo si basa su una forma di empatia. È la prima volta che Derrida affronta il tema dell’ebraismo; la prossimità fra le preoccupazioni di Jabès e le sue sembra del tutto evidente»[4]. Fin dall’esordio, il filosofo coglie bene il mutamento di tono e di livello segnato dal nuovo volume rispetto al precedente, Je bâtis ma demeure, che riuniva le poesie scritte prima che la situazione politica creatasi in Egitto, caratterizzata da un clima di crescente antisemitismo, obbligasse Jabès ad emigrare trasferendosi a Parigi[5]. Derrida sostiene che, nella raccolta più datata, «umorismo e giochi, risa e danze, canzoni s’intrecciavano con grazia attorno a una parola che, per il fatto di non aver ancora amato la propria vera radice, si piegava un po’ al vento. Ancora non si ergeva per dire soltanto la rettitudine e l’austerità del dovere poetico. Nel Livre des Questions, la voce non si altera, l’intenzione non si interrompe, ma l’accento si fa più grave. Una potente e antica radice viene esumata, e su di essa una ferita senza età viene messa a nudo […]: si tratta di un certo ebraismo inteso come nascita e passione della scrittura»[6]. Passione non esente da fatica e responsabilità, che non riguarda esclusivamente i rappresentanti di un determinato popolo, ma assume un valore più ampio, sicché la condizione ebraica finisce con l’emblematizzare quella dello scrittore in generale.
Nel Livre des Questions, si assiste al graduale prodursi dell’opera: «Il libro è proprio il soggetto del poeta, essere parlante e conoscente che scrive nel libro sul libro. Questo movimento attraverso cui il libro, articolato dalla voce del poeta, si piega e si ricollega a se stesso, diventa soggetto in sé e per sé»[7]. Va detto che l’opera narra anche, sia pure parzialmente e in maniera frammentaria, una vicenda, quella dei due giovani amanti Sarah e Yukel. Entrambi sono sopravvissuti ai campi di sterminio, ma ne sono usciti distrutti: lei, infatti, impazzisce a causa dalle tragiche esperienze subite, mentre lui si suicida per disperazione. L’epilogo della storia, peraltro, sarà reso esplicito solo nel volume successivo, Le Livre de Yukel[8]. Jabès parla metaforicamente di «romanzo», benché le sue opere siano composte da prose poetiche, dialoghi, poesie e aforismi, dunque in esse la componente narrativa non svolga affatto un ruolo preminente: «Il romanzo di Sarah e Yukel, attraverso vari dialoghi e meditazioni attribuiti a rabbini immaginari, è il racconto di un amore distrutto dagli uomini e dalle parole. Ha la dimensione del libro e l’amara ostinazione di una domanda errante»[9].
Per il poeta, l’intento di ricollegarsi alle proprie radici non costituisce una limitazione, ma un’apertura di possibilità. È quel che uno dei sapienti del libro, Reb Zalé, esprime dicendo: «Tu credi che sia l’uccello ad essere libero. Ti sbagli; è il fiore»[10]. Entrare in rapporto con un luogo non significa però volersi rinchiudere in un ambito proprio, che escluda gli estranei: «Quando un Ebreo o un poeta proclamano il Luogo, non stanno dichiarando guerra. Poiché, per il fatto di richiamarci a partire dall’oltre-memoria, questo Luogo, questa terra, sono sempre Laggiù. Il Luogo non è il Qui empirico e nazionale di un territorio, ma, essendo immemoriale, è dunque anche un avvenire. Meglio: la tradizione come avventura»[11].
Jabès non si sente partecipe di una religione condivisa, e in tal senso il suo libro «costituisce anche una spiegazione con la comunità ebraica […] a cui il poeta non appartiene realmente»[12]. E il medesimo discorso vale nei riguardi del Libro sacro, da sempre al centro della spiritualità ebraica e oggetto di un’infinita serie di commenti. Jabès non esula per intero da questa tradizione, ma il suo modo di rapportarsi ad essa resta inassimilabile all’esegesi rabbinica: «L’apertura originaria dell’interpretazione significa essenzialmente che ci saranno sempre rabbini e poeti. E due interpretazioni dell’interpretazione. La Legge diviene allora Domanda e il diritto alla parola si confonde col dovere di interrogare»[13]. Infatti i rabbini che compaiono nel Livre des Questions non sono individui realmente esistiti, ma personaggi immaginari, i cui detti, sovente eterodossi, esprimono pensieri e dubbi che, almeno in parte, sono propri dello stesso Jabès.
Lo spazio del libro, disertato dalla voce divina, diviene quello di una sterminata distesa di sabbia, sicché «la dimora che il poeta costruisce […] è una tenda leggera, fatta di parole nel deserto, in cui l’Ebreo nomade è colpito dall’infinito e dalla lettera»[14]. Non si tratta solo di metafore, perché davvero Jabès, quando risiedeva al Cairo, amava evadere dalla città e trascorrere molte ore da solo in quegli spazi desolati. Tale abitudine ha influenzato il suo modo di pensare: «In Egitto avevo fatto la straordinaria esperienza del deserto. Che cos’è l’esperienza del deserto? […] È, per esempio, l’esperienza dell’infinito, oppure del silenzio. Nel deserto, un uomo diventa silenzio, e tutto ciò che sta intorno diventa parlante, diventa altro»[15].
Come nella sabbia non esistono sentieri predeterminati, poiché il sentiero è ogni volta da inventare, così lo scrittore esita quando si pone di fronte alla pagina bianca. In quella situazione, può accadere che egli avverta l’esigenza di assentarsi, in modo da far posto ai vocaboli. È quanto asseriva già Mallarmé: «L’opera pura implica la sparizione elocutoria del poeta, che cede l’iniziativa alle parole»[16]. Derrida sostiene appunto che «essere poeta significa saper lasciare la parola. Lasciarla parlare da sola, cosa che essa può fare solo nello scritto»[17]. Ma vale anche l’inverso, nel senso che sono proprio le sue opere quelle che consentono allo scrittore di acquisire un nome. Egli deve dunque ammettere: «Senza i miei scritti, sono più anonimo di un lenzuolo al vento, più trasparente del vetro di una finestra»[18]. Una certa assenza rimane però indispensabile, nel testo, e si manifesta come spaziatura, interruzione: lo si vede bene nei libri jabesiani, che sono composti perlopiù da frasi brevi, di tono lirico o sentenzioso, e caratterizzati da una particolare mise en page che lascia respirare lo scritto, grazie agli spazi bianchi posti a separare fra loro le frasi, i capoversi e i capitoli. È in tal senso che il filosofo afferma: «Ogni scrittura è aforistica. Nessuna “logica”, nessun rigoglio di liane connettive può venire a capo della sua discontinuità e della sua inattualità essenziali, della genialità dei suoi silenzi sottintesi»[19].
Secondo Derrida, nel Livre des Questions si può scorgere «la sofferenza, la riflessione millenaria di un popolo»[20]. Per reagire al mutismo divino e all’afasia causata dal ricordo delle atrocità naziste, all’ebreo non resta che ricorrere al grido, al canto o alla scrittura. Temi jabesiani come quelli della negatività in Dio e della vita attribuita alle lettere del testo sono in parte riconducibili a fonti religiose, in special modo alla Qabbalah, ma di fatto a essere in causa è un tradizionalismo relativo, assai poco rispettoso dell’ortodossia. Di ciò il poeta è pienamente consapevole, al punto da riferire, in un passo del suo libro, le obiezioni che potrebbero essergli rivolte dagli ebrei osservanti, e le risposte che egli formulerebbe al riguardo[21]. Il filosofo nota che «Jabès non è un accusato in questo dialogo, ma porta in se stesso il dialogo e la contestazione. In questa non-coincidenza di sé con sé, è più e meno ebreo dell’Ebreo»[22].
Quando il poeta scrive frasi come «il mondo esiste perché il libro esiste»[23], non si sta rifacendo alla plurisecolare idea della natura considerata quale libro creato da Dio[24]. Per Jabès, infatti, nessun elemento del reale rappresenta un’entità certa e immutabile, essendo sempre minacciato tanto dalle domande che suscita, quanto dal nulla, dal non-senso. Tuttavia Derrida, pur riconoscendo che Le Livre des Questions non rifugge dall’inquietudine ma si alimenta di essa, avanza dei dubbi riguardo alla concezione jabesiana. Ad essa, egli obietta che «l’atto di fede nel libro può precedere, come sappiamo, la fede nella Bibbia. E anche sopravviverle»[25]. Il rischio è quello di continuare a credere «che l’essere è una Grammatica; e il mondo è per intero un crittogramma da costituire o ricostituire tramite iscrizione o decifrazione poetiche; che il libro è originario, che ogni cosa è al libro prima di essere e di venire al mondo»[26]. In reazione a ciò, il filosofo formula una lunga serie di domande, chiedendosi ad esempio: che accadrebbe «se la forma del libro non dovesse più essere il modello del senso? Se l’essere fosse radicalmente fuori dal libro, fuori dalla sua lettera? […] Se l’essere-mondo, la sua presenza, il suo senso d’essere, si rivelasse soltanto nell’illeggibilità, in un’illeggibilità radicale che non fosse complice di una leggibilità perduta o cercata, di una pagina ancora intonsa in una qualche enciclopedia divina? […] Se il libro non fosse altro che il più sicuro oblio della morte? La dissimulazione di una scrittura più vecchia o più giovane, in ogni caso di un’altra epoca rispetto al libro, alla grammatica e a tutto ciò che in essa si annuncia sotto il nome di senso dell’essere?»[27].
Si tratta di quesiti enigmatici, che divengono più chiari se rapportati alle idee che Derrida sta sviluppando in parallelo, e che confluiranno in opere successive, soprattutto in De la grammatologie[28]. In quel libro, il significato attribuito al vocabolo «scrittura» è assai più ampio rispetto a quello corrente. Il filosofo parla appunto di una «archi-scrittura» che, «aprendo ad un tempo, in una sola e medesima possibilità, la temporalizzazione, il rapporto all’altro e il linguaggio, non può, in quanto condizione di ogni sistema linguistico, far parte del sistema linguistico stesso»[29]. Sempre in De la grammatologie, egli annuncia la fine del libro, inteso non come oggetto materiale, bensì come concetto: infatti, a suo giudizio, «l’idea del libro, che rinvia sempre a una totalità naturale, è profondamente estranea al senso della scrittura. È la protezione enciclopedica della teologia e del logocentrismo contro l’azione dirompente della scrittura»[30].
Tutto ciò ha una portata talmente generale che – ammette Derrida – avrebbe poco senso imputare a Jabès il fatto di non aver previsto e condiviso tali idee. I limiti del poeta sono quelli della letteratura stessa: infatti, letterariamente parlando, «scrivere non significa forse confondere ancora l’ontologia e la grammatica?»[31]. Sembra qui di riascoltare le parole di Nietzsche: «L’essere viene ovunque pensato, interpolato come intima causa delle cose; dal concepimento dell’“io” consegue, come derivato da esso, il concetto di “essere” […]. Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica»[32]. Lo scrittore egiziano, invece, deve limitarsi a far enunciare ai suoi sapienti affermazioni come questa: «C’è il Libro di Dio attraverso cui Dio si interroga e c’è il libro dell’uomo che è a misura di quello di Dio»[33]. Se Derrida sceglie di concludere il proprio saggio con tale citazione è perché può completarla, in basso a destra, col nome del rabbino a cui Jabès la attribuisce, ossia «Reb Rida», dando così luogo (per via della somiglianza fonica) a un «effetto di firma». Si tratta, come vedremo anche più oltre, di un procedimento non casuale. Il suo impiego culminerà nel libro Marges – de la philosophie, sigillato, sempre in basso a destra dell’ultima pagina, dal nome «J. Derrida» riprodotto sia a stampa che in forma manoscritta[34].
Ma non è ancora giunto il momento di abbandonare la lettura di L’écriture et la différence, perché quel volume comprende un secondo contributo su Jabès. Si tratta di un testo inedito in precedenza, dunque redatto allo scopo di collocarlo a chiusura della raccolta saggistica. Tale scritto, Ellipse, commenta il terzo tomo del Livre des Questions, vale a dire Le retour au livre[35]. Il filosofo riparte dal punto in cui si era fermato, ossia dalle critiche rivolte a certi aspetti teorici dell’opera jabesiana. Ribadisce dunque che esistono due posizioni inconciliabili: «Da un lato, l’enciclopedia teologica e, sul suo modello, il libro dell’uomo. Dall’altro, un tessuto di tracce che indica la sparizione di un Dio superato o di un uomo cancellato»[36]. Tuttavia il ritorno al libro messo in atto dal poeta non va inteso come una semplice reiterazione, poiché si tratta di qualcosa di più complesso: «È un momento dell’erranza, ripete l’epoca del libro, la totalità della sua sospensione tra due scritture […]. La ripetizione non ripubblica il libro, ma ne descrive l’origine a partire da una scrittura che non gli appartiene ancora o non gli appartiene più»[37].
Derrida sembra dunque mostrarsi più attento a ciò che, nelle opere di Jabès, eccede le concezioni tradizionali. È come se ora il filosofo fosse disposto a riconoscere che, alla nuova idea di scrittura da lui teorizzata, anche il poeta ha avuto accesso: «La pura ripetizione, quand’anche non cambiasse neppure una cosa o un segno, porta con sé una potenza illimitata di perversione e di sovversione. Questa ripetizione è scrittura perché ciò che scompare in essa è l’identità a sé dell’origine, la presenza a sé della parola sedicente viva»[38]. Presentato in tal modo, Jabès diviene un alleato del filosofo, in quanto condivide con lui la critica rivolta ai miti dell’origine pura, del fonocentrismo, della presenza vivente. Ma a ben vedere le riserve derridiane, rispetto alle concezioni di Jabès, permangono. Ad esempio, in Le retour au livre, il poeta esprime a più riprese l’idea di un’assenza del centro (che equivale all’assenza di Dio), e lo fa con formule come: «Il centro è, forse, lo spostamento della domanda», «Nessun centro dove il cerchio è impossibile», «Il centro è il fallimento. Il Creatore è respinto dalla creazione», «Il centro è il lutto»[39]. Ma è proprio tale senso di perdita a suscitare sospetti nel filosofo: «Così come c’è una teologia negativa, c’è anche un’ateologia negativa. Complice, essa dice ancora l’assenza di centro quando occorrerebbe già affermare il gioco»[40]. Quest’ultimo accenno non va certo inteso come l’invito a una maggiore frivolezza, ma all’opposto come un richiamo alla «critica nietzschiana della metafisica, dei concetti di essere e di verità, ai quali vengono sostituiti i concetti di gioco, di interpretazione e di segno»[41].
Risulta piuttosto chiaro che, per Derrida, l’operazione letteraria e teorica attuata da Jabès va considerata nel contempo fruttuosa ed ambigua: «L’al di là della chiusura del libro non è da attendere né da ritrovare. È qui, ma al di là, è nella ripetizione ma sottraendosi ad essa. È qui come l’ombra del libro, il terzo fra le due mani che tengono il libro»[42]. Tale immagine serve a introdurre un’ultima citazione da Le retour au livre: «Domani è l’ombra e la riflessibilità delle nostre mani»[43]. E poiché Jabès attribuisce la frase a Reb Dérissa, il nome del rabbino, collocato in fondo alla pagina, funge ancora una volta da firma indiretta del filosofo.
Qualche anno dopo, ci sarà un suo ulteriore pronunciamento sul poeta. Si tratta di un testo assai poco noto, non essendo mai stato ripreso in volume. Il breve scritto costituisce la risposta a un’inchiesta promossa dalla rivista «Les Nouveaux Cahiers». Una redattrice del periodico invitava infatti a pronunciarsi sui due punti seguenti: «1 – Nella produzione letteraria attuale, quale posto attribuisce all’opera di Edmond Jabès? 2 – Come la definisce in particolare, senza tuttavia limitarne il campo, in rapporto al suo riferirsi all’esilio, all’erranza, e di conseguenza alla condizione ebraica che, per l’autore, si identifica con quella della scrittura e dello scrittore?»[44]. Oltre al filosofo, tra coloro che rispondono alle domande figurano personaggi autorevoli come Maurice Blanchot, René Char, Emmanuel Levinas e Jean Starobinski.
L’intervento di Derrida esordisce con un ricordo personale, rievocando il momento in cui, nel 1963, egli aveva letto il primo tomo del Livre des Questions, trovando in esso «l’inanticipabile, cioè il più rimosso, il più familiare, insopportabilmente vicino e noto, il più atteso»[45]. Già qui emerge l’effetto perturbante prodotto da tale lettura: il volume, infatti, trattava temi che al filosofo apparivano fin troppo prossimi e, nel contempo, erano espressi in modo imprevisto. Si trattava per lui di essere indotto a confrontarsi non soltanto con le proprie origini ebraiche, ma anche con una meditazione che, vertendo sul fatto stesso di scrivere, risultava molto coinvolgente. Lo si nota dalla maniera in cui egli evidenzia tale aspetto: «La questione della scrittura […] l’ho incontrata lì come già raccolta, speculata, scommessa, arrischiata in anticipo in ogni atomo del libro. Nell’insieme e ogni volta riflettendosi nel rubino aforistico e nell’incantesimo per la lira senza età. Ma l’aforisma rutilante celava ancora […] la più calcolata delle partiture, difficile, libera e rigorosa, una sorta di liana cifrata che veniva a stringere, a incastonare, ossia a intrecciare fra loro, le schegge mortali, gli spigoli più taglienti». Derrida sostiene che, nel decennio successivo al volume iniziale del Livre des Questions, le opere del poeta sono state tenute a distanza dal «centro rumoroso del distretto letterario», ma ciò non ha impedito loro di esercitare una notevole influenza.
Il filosofo si mostra invece irritato dal secondo quesito dell’inchiesta, poiché scorge in esso un tentativo di recupero delle opere jabesiane da parte di un certo ebraismo istituzionale («Le Nouveaux Cahiers» è una rivista pubblicata col sostegno dell’Alliance Israélite Universelle). Ciò lo induce a rispondere, provocatoriamente, che «Jabès, come tutti sanno, non è ebreo». Egli intende dire che i libri del poeta prendono avvio proprio dal rifiuto di ogni appartenenza: «Nell’immaginario, l’area in cui Jabès lascia discorrere i suoi rabbini, svia le loro sentenze, espropria i loro nomi, si deve leggere anche uno sradicamento, una deriva o dispersione di cui la diaspora (se mi si permette di tradurre così il raccogliersi nazionale, mondiale e radicale dell’ebraismo) è forse l’iniziale e più dolce sutura. In essa l’ebreo si medica, si benda, si vela e circoscrive. Jabès riapre e fa sanguinare. Rubino sull’unghia»[46]. Derrida ci tiene dunque a ribadire la propria vicinanza al poeta, ma senza accettare, né per lui né per se stesso, alcuna affiliazione all’ambito politico-culturale al quale è legato il periodico che promuove l’inchiesta.
Nello stesso periodo, è Jabès a rendere omaggio al filosofo, in occasione di un fascicolo monografico dedicatogli dalla rivista «L’Arc». Lo fa con un testo che, nella sua versione definitiva, recherà il titolo Lettre à Jacques Derrida sur la question du livre[47]. La grafica insolita serve a suggerire che lo scritto rappresenta, idealmente, una tardiva risposta al più ampio dei due saggi di L’écriture et la différence, ossia Edmond Jabès et la question du livre. Il poeta dichiara che, se ha scelto di indirizzarsi direttamente a Derrida, è perché «si può parlare all’altro – o dell’altro – solo attraverso la voce del dialogo intimo»[48]. Nel contempo, però, manifesta un certo fastidio nel constatare che, negli anni Settanta, vocaboli come «testo» e «scrittura» sono divenuti per molti intellettuali l’oggetto di una moda superficiale, anziché di una seria riflessione. Ai suoi occhi, nell’atto di scrivere non vi è nulla di meccanico, di prestabilito, sicché ci si illude quando si pensa di poter esercitare un dominio sulle parole: «Prendendo in mano la penna, credevamo di raggiungere una specie di pienezza e di unità confortanti. Dopo, tutto cambia. Separati da noi stessi a causa della nostra audacia, privati del nostro bene, la virile e pronta reazione che abbiamo consiste nel tentare di soggiogare questa ribelle voce d’inchiostro, per appropriarcene. Ma la parola trascritta, che abbiamo ammanettato per i polsi, che ingenuamente abbiamo creduto di immobilizzare, mantiene la propria libertà»[49].
Più oltre, sempre rivolgendosi a Derrida, Jabès giunge ad affrontare la questione del libro, e ricorda in proposito l’immagine, cara alla mistica ebraica, secondo cui la Torah sarebbe stata incisa con fuoco nero su fuoco bianco: «Consumazione senza fine della pergamena sacra e della pagina profana votate ai segni, come se ciò che è […] scritto fosse solo un gioco perpetrato dalle fiamme […]. La “decostruzione” che lei opera non sarebbe altro, qui, che la propagazione di innumerevoli focolai d’incendio»[50]. Alludendo alle osservazioni derridiane sulla ripetizione del libro che si riscontrerebbe nei volumi di Jabès, quest’ultimo risponde evidenziando che il medesimo movimento è ravvisabile nelle opere del suo interlocutore: «Nel dire, nulla è mai abbastanza detto che non aspiri a essere ripetuto, ma diversamente. Di modo che il dire è, nel contempo, la rivelazione e la promessa che il dire stesso contiene in sé. Anche la decostruzione funziona a tale livello, ordinando, preparando quei momenti in cui la parola si scinde e si neutralizza nei suoi contrari accordati […]. Così i suoi libri rimandano gli uni agli altri»[51]. Questo però non va inteso come un modo per rassicurarsi, anzi il poeta dichiara di trovare ammirevole il coraggio dimostrato da Derrida nell’affrontare le insidie a cui si espone: «Mettendo continuamente in dubbio, con impareggiabile rigore, ogni risposta scontata, ciò che fin dall’inizio mi ha conquistato, attraverso i suoi scritti e la determinazione che da essi traspare, ciò che obbliga al rispetto […], è questa accettazione totale del rischio»[52].
Anche l’interesse di cui Derrida dà prova nei riguardi dei testi letterari, ad esempio quelli di Mallarmé e Artaud, non costituisce semplicemente un modo per allargare il campo d’indagine, ma serve ad aggiungere alle interrogazioni filosofiche un ulteriore elemento di profondità, «un sovrappiù d’abisso; poiché è su un fondo di abisso che si pone realmente la questione della scrittura […]. Scrivere la domanda e interrogarne la scrittura esigono qualcosa di più, esigono di andare oltre, oltre il giorno, oltre la vita, nel giorno e nella vita stessi, ma in quelle regioni desertiche – il deserto non è forse polvere di domande? – che sfiniscono, fino all’annientamento, il pensiero nella sua chiarezza reclusa, e l’uomo nella sua parola compiuta»[53].
Per quanto possa sembrare che Jabès, in questo testo, parli di un pensatore utilizzando il proprio linguaggio poetico, di fatto egli non manca di riprendere anche, citandoli e commentandoli, passi o termini tipicamente derridiani. È il caso del neologismo différance, vocabolo nel quale «una lettera, la settima, è stata scambiata con la prima dell’alfabeto, in segreto, silenziosamente. E ciò è bastato perché il testo sia diverso. Lei si è spiegato più volte su questa parola nuova, distruttrice e creatrice di uno spazio in cui tutto si annulla, confrontandosi – aprendola, “differendola” – con la sua potenziale differenza […]. In quelle pagine, la lettura del libro è lettura smisurata di una lettera che ci conduce il più lontano possibile, sicché è in questo allontanamento in cui abbracciamo le nostre differenze […] che il libro si presenta come libro stampato, in un’assenza che il foglio propaga»[54]. Si tratta di una maniera, da parte di Jabès, mentre si sta riferendo a un terminus technicus del linguaggio derridiano, di alludere al complesso rapporto di vicinanza e distanza che egli intrattiene col filosofo.
Nei decenni successivi, i due amici rimangono in contatto, e talvolta si trovano a combattere le stesse battaglie, come quella contro la segregazione razziale praticata dalla minoranza bianca contro i neri in Sudafrica. Entrambi infatti partecipano (assieme ad altri tredici scrittori di vari paesi) a un volume di omaggio a Nelson Mandela, prestigioso leader a cui la lotta contro l’apartheid è costata più di trent’anni di carcere[55]. Tuttavia i richiami reciproci, all’interno delle rispettive opere, sostanzialmente spariscono.
Occorre attendere la morte di Jabès perché il filosofo torni a pronunciarsi su di lui. Lo fa in una lettera indirizzata a Didier Cahen, organizzatore di un convegno in memoria del poeta, e destinata ad essere letta in quell’occasione. Derrida chiarisce subito che non potrà essere presente all’incontro, fissato per il 16 aprile 1992, giacché in quella data si troverà «dall’altra parte del mondo»[56]. Infatti, nel corso dell’anno, dovrà compiere numerosi viaggi di lavoro, non soltanto in vari paesi europei, ma anche negli Stati Uniti e in Giappone. Questo però non gli impedisce di rammemorare ancora una volta il momento in cui, quasi trent’anni prima, era entrato in contatto con l’opera del poeta egiziano. Scrive infatti: «Avevo appena scoperto come per caso Le Livre des Questions, presso un giornalaio di periferia, e vi avevo sentito risuonare, da luoghi nel contempo immemorabili e così poco battuti, così poco discernibili, una voce che – lo presentivo – non ci avrebbe più lasciato. E ciò anche se lui, Edmond Jabès, che non conoscevo ancora, di cui non sapevo nulla, neppure se fosse vivo e dove si trovasse, un giorno avesse dovuto tacere e lasciarci soli con i suoi libri. Era già, fin da questa prima lettura, una certa esperienza del silenzio apofatico, dell’assenza, del deserto, dei sentieri aperti al di fuori dalle strade, della memoria deportata»[57]. In questa rapida enumerazione dei temi presenti nel Livre des Questions, va sottolineato almeno il «silenzio apofatico», formula che torna a instaurare un nesso fra il pensiero di Jabès e la teologia negativa, basata sull’idea dell’impossibilità di dire alcunché di positivo riguardo a Dio, in quanto nessuna definizione può essergli adeguata.
La vicinanza tra il filosofo e il poeta era dunque sorta, sia pure indirettamente, prima ancora che si stabilissero fra loro un sodalizio e una frequentazione assidua. Secondo Derrida, «quando l’amicizia comincia prima dell’amicizia, ha senza dubbio a che fare con la morte, nasce nel lutto, ma è anche doppiamente affermata e sigillata»[58]. La morte a cui si allude è quella inerente all’amicizia stessa, insidiata fin dall’origine dalla previsione del decesso di uno dei componenti della coppia amicale, cosa che non mancherà di causare dolore al superstite. Come spiega altrove il filosofo, «la philía inizia con la possibilità di sopravvivere. Sopravvivere, ecco l’altro nome di un lutto la cui possibilità, almeno, non si fa mai attendere. Poiché non si sopravvive senza portare il lutto»[59].
D’altro canto e su un piano diverso, chiunque pubblichi libri sa, o dovrebbe sapere, che essi, quand’anche fossero destinati ad essere apprezzati e commentati dopo la sua morte, non dipenderanno da lui. Di ciò, secondo Derrida, il poeta egiziano era ben consapevole: «Jabès sapeva che i libri non appartengono più, e neppure le domande, per non parlare delle risposte»[60]. Lo scrittore, dunque, deve rassegnarsi il prima possibile all’idea di perdere le proprie opere, sia pure a beneficio delle opere stesse e dei futuri lettori.
Nel finale della missiva il filosofo, che ha già avuto modo di ricordare certi amici suoi e del poeta, come Paul Celan e Gabriel Bounoure, ne chiama in causa altri che, diversamente da lui, potranno partecipare al convegno: «Se desidero e se in verità ho così facilmente la sensazione di essere vicino a voi in questo 16 aprile, dalla costa del Pacifico, non è solo perché i lettori, gli ammiratori e gli amici di Edmond Jabès si trovano riuniti […]. È anche perché, dell’invisibile condivisione in cui si incrociano il pensiero e la poesia, i migliori testimoni restano per me altri amici, in particolare Michel Deguy e lei stesso, caro Didier, come pure coloro ai quali lei mi consente, in questo modo, di rivolgermi»[61]. Certo, non è allo stesso Jabès, spentosi l’anno precedente, che il filosofo può indirizzare la propria lettera, giacché il decesso resta qualcosa di irreparabile. E tuttavia, a ben vedere, l’interlocuzione con l’amico non finisce a causa della sua morte, bensì – come Derrida ha indicato in un altro testo – continua, sia pure soltanto nella forma, necessaria e significativa, del «dialogo interiore»[62].
NOTE
[1] Jacques Derrida, Edmond Jabès et la question du livre, in «Critique», 201, 1964, poi in L’écriture et la différence, Paris, Éditions du Seuil, 1967, pp. 99-116 (tr. it. Edmond Jabès e la interrogazione del libro, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971, pp. 81-97). Cfr. E. Jabès, Le Livre des Questions [Le Livre des Questions, I], Paris, Gallimard, 1963; è il primo di una serie che comprenderà sette tomi (tr. it. Il Libro delle Interrogazioni, nel volume dallo stesso titolo, Milano, Bompiani, 2015, pp. 1-325).
[2] Lettera di Jabès a Derrida del 10 ottobre 1963, cit. in Benoît Peeters, Derrida, Paris, Flammarion, 2010, p. 171.
[3] Di quest’ultimo, si veda il volume postumo Edmond Jabès, la demeure et le livre, Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1984 (tr. it. Edmond Jabès, la dimora e il libro, Fano, Aras, 2016).
[4] B. Peeters, op. cit., pp. 170-171.
[5] Cfr. E. Jabès, Je bâtis ma demeure. Poèmes 1943-1957, Paris, Gallimard, 1959, incluso poi in Le Seuil Le Sable. Poésies complètes 1943-1988, Paris, Gallimard, 1990, pp. 13-323.
[6] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 99 (tr. it. p. 81; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[7] Ibid., p. 100 (tr. it. p. 82).
[8] E. Jabès, Le Livre de Yukel [Le Livre des Questions, II], Paris, Gallimard, 1964 (tr. it. Il Libro di Yukel, in Il Libro delle Interrogazioni, cit., pp. 327-589).
[9] Le Livre des Questions, cit., p. 26 (tr. it. p. 27).
[10] Ibid., p. 124 (tr. it. p. 209).
[11] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 101 (tr. it. p. 83).
[12] Ibid., p. 102 (tr. it. p. 84).
[13] Ibid., pp. 102-103 (tr. it. p. 84).
[14] Ibid., p. 105 (tr. it. p. 87).
[15] E. Jabès, in Jabès, il vento nel deserto, intervista di Enrico Filippini apparsa in «La Repubblica» il 5 maggio 1983.
[16] Stéphane Mallarmé, Crise de vers, in Divagations (1897), in Œuvres complètes, vol. II, Paris, Gallimard, 2003, p. 211 (tr. it. Crisi di verso, in Divagazioni, in Opere. Poemi in prosa e opera critica, Milano, Lerici, 1963, p. 256).
[17] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 106 (tr. it. p. 87).
[18] Le Livre des Questions, cit., p. 123 (tr. it. p. 207).
[19] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 107 (tr. it. p. 89).
[20] Ibid., p. 110 (tr. it. p. 91).
[21] Cfr. Le Livre des Questions, cit., pp. 63-65 (tr. it. pp. 99-101).
[22] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 112 (tr. it. p. 93).
[23] Le Livre des Questions, cit., p. 33 (tr. it. p. 39).
[24] Sulla storia di questa immagine, cfr. gli studi di Ernst Robert Curtius, Il libro come simbolo, in Letteratura europea e Medio Evo latino (1948), tr. it. Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 335-385, e di Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo (1981), tr. it. Bologna, Il Mulino, 1984.
[25] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 114 (tr. it. p. 95).
[26] Ibidem.
[27] Ibid., pp. 114-115 (tr. it. pp. 95-96).
[28] J. Derrida, De la grammatologie, Paris, Éditions de Minuit, 1967 (tr. it. Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969).
[29] Ibid., p. 88 (tr. it. pp. 67-68).
[30] Ibid., pp. 30-31 (tr. it. p. 21).
[31] Edmond Jabès et la question du livre, cit., p. 116 (tr. it. p. 96).
[32] Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (1889), in Opere, vol. VI, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1970; 1986, pp. 72-73.
[33] Le Livre des Questions, cit., p. 19 (tr. it. p. 19).
[34] Cfr. J. Derrida, Marges – de la philosophie, Paris, Éditions de Minuit, 1972, p. 393 (tr. it. Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, p. 424).
[35] E. Jabès, Le retour au livre [Le Livre des Questions, III], Paris, Gallimard, 1965 (tr. it. Il ritorno al libro, in Il Libro delle Interrogazioni, cit., pp. 591-763).
[36] Ellipse, in L’écriture et la différence, cit., p. 429 (tr. it. Ellissi, in La scrittura e la differenza, cit., p. 377).
[37] Ibid., pp. 429-430 (tr. it. pp. 377-378).
[38] Ibid., p. 431 (tr. it. p. 379).
[39] Le retour au livre, cit., pp. 57-59 (tr. it. pp. 681-685).
[40] Ellipse, cit., pp. 432-433 (tr. it. pp. 380-381).
[41] La structure, le signe et le jeu dans le discours des sciences humaines (1966), in L’écriture et la différence, cit., p. 412 (tr. it. La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, in La scrittura e la differenza, cit, p. 361).
[42] Ellipse, cit., p. 436 (tr. it. p. 384).
[43] Le retour au livre, cit., p. 79 (tr. it. p. 721).
[44] Janine Gdalia, Edmond Jabès aujourd’hui, in «Les Nouveaux Cahiers», 31, 1972-73, p. 51.
[45] J. Derrida, testo senza titolo, ibid., p. 56 (dalla medesima pagina sono tratte anche le successive citazioni).
[46] La frase finale, che traduciamo alla lettera, comporta un gioco di parole tra il «rubino», inteso come colore del sangue della ferita riaperta, e la locuzione francese payer rubis sur l’ongle, che significa «pagare prontamente fino all’ultimo centesimo».
[47] E. Jabès, Sur la question du livre, in «L’Arc», 54, 1973; poi, col titolo Lettre à Jacques Derrida sur la question du livre, in Ça suit son cours [Le Livre des Marges, I], Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1975, pp. 41-60 (tr. it. Lettera a Jacques Derrida su la questione del libro, in Il corso della scrittura, in Il libro dei margini, Firenze, Sansoni, 1986, pp. 36-50).
[48] Ibid., p. 49 (tr. it. p. 39).
[49] Ibid., p. 52 (tr. it. p. 42).
[50] Ibid., pp. 54-55 (tr. it. pp. 44-45).
[51] Ibid., p. 55 (tr. it. pp. 45-46).
[52] Ibidem (tr. it. p. 46).
[53] Ibid., pp. 56-57 (tr. it. pp. 46, 48).
[54] Ibid., pp. 58-59 (tr. it. pp. 48-50).
[55] AA. VV., Pour Nelson Mandela, a cura di Dominique Lecoq, Paris, Gallimard, 1986. Cfr. J. Derrida, Admiration de Nelson Mandela ou Les lois de la réflexion (1986), in Psyché. Inventions de l’autre, Paris, Galilée, 1987, pp. 453-475 (tr. it. Ammirazione di Nelson Mandela o le leggi della riflessione, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 2, Milano, Jaca Book, 2009, pp. 81-105); E. Jabès, Avec Nelson Mandela (1986), in Bâtir au quotidien [Le Livre des Marges, III, esquisse], Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1997, pp. 43-47).
[56] Cfr. J. Derrida, De l’autre côté du monde (1992), in AA. VV., Saluer Jabès, a cura di D. Cahen, Bordeaux, Opales, 2000; poi ripreso, col titolo Lettre à Didier Cahen, in J. Derrida, Chaque fois unique, la fin du monde, Paris, Galilée, 2003, pp. 153-157 (tr. it. Lettera a Didier Cahen, in Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano, Jaca Book, 2005, pp. 137-140). Di Cahen, si vedano due volumi, entrambi intitolati Edmond Jabès ma diversi fra loro, editi a Parigi da Belfond nel 1991 e da Seghers nel 2007.
[57] Ibid., pp. 155-156 (tr. it. pp. 139-140).
[58] Ibid., p. 156 (tr. it. p. 140).
[59] J. Derrida, Politiques de l’amitié suivi de L’oreille de Heidegger, Paris, Galilée, 1994, p. 31 (tr. it. Politiche dell’amicizia, Milano, Cortina, 1995, p. 24).
[60] Lettre à Didier Cahen, cit., p. 156 (tr. it. p. 140).
[61] Ibid., pp. 156-157 (tr. it. p. 140).
[62] Cfr. J. Derrida, Béliers. Le dialogue ininterrompu: entre deux infinis, le poème, Paris, Galilée, 2003, p. 13 (tr. it. Arieti. Il dialogo ininterrotto con Gadamer, Milano-Udine, Mimesis, 2019, p. 11).
Sono felicissimo di ritrovare qui un nuovo, magistrale contributo di Giuseppe Zuccarino.
Grazie, Antonio.