Yves Bonnefoy, Psiche innanzi al castello di Amore, a cura di Antonio Devicienti
Psiche innanzi al castello di Amore
Sognò di aprire gli occhi, vide soli
che s’avvicinavano al porto, silenziosi
ancora, luci spente ma raddoppiate nell’acqua grigia
da un’ombra in cui s’affacciava il colore a venire.
Poi si risvegliò. Che cos’è la luce?
Che cosa significa dipingere qui, la notte? dar più
forza a questo blu, agli ocra, a tutti i rossi
non è morire ancor più di prima?
Dipinse allora il porto – però in rovina
(s’udiva l’acqua battere contro i fianchi della bellezza
e bambini gridare nelle camere chiuse)
le stelle scintillavano tra le pietre.
Ma l’ultimo dipinto (null’altro che uno schizzo)
sembra sia Psiche che, ritornata,
è rovinata in pianto (o canticchia) nell’erba
che s’avvinghia alla soglia del castello di Amore.
Psyché devant le château d’Amour
Il rêva qu’il ouvrait les yeux, sur des soleils
Qui approchaient du port, silencieux
Encore, feux éteints; mais doublés dans l’eau grise
D’une ombre où foisonnait la future couleur.
Puis il se réveilla. Qu’est-ce que la lumière?
Qu’est-ce que peindre ici, de nuit? Intensifier
Le bleu d’ici, les ocres, tous les rouges,
N’est-ce pas de la mort plus encore qu’avant?
Il peignit donc le port mais le fit en ruine,
On entendait l’eau battre au flanc de la beauté
Et crier des enfants dans des chambres closes,
Les étoiles étincelaient parmi les pierres.
Mais son dernier tableau, rien qu’une ébauche,
Il semble que ce soit Psyché qui, revenue,
S’est écroulée en pleurs ou chantonne, dans l’herbe
Qui s’enchevêtre au seuil du château d’Amour.
Pubblicati nel libro del 1987 Ce qui fut sans lumière (Gallimard) questi versi ispirati dalla pittura di Claude Lorrain trovano una sorta di commento sul finire della conversazione tra Yves Bonnefoy e Daniel Bergez che si può leggere nel volume Il grande spazio (Moretti & Vitali, Bergamo 2008, pp. 117-118): «Una poesia […] s’intitola Psiche davanti al castello d’Amore, titolo che chiaramente allude al celebre quadro di Claude Lorrain. E poiché si tratta di “astri solari” che sono navi, e di “porti” dove questi soli entrano, io penso che non ci siano dubbi che le strofe siano l’evocazione di questo quadro e di tutto questo pittore. Ma allora non si è colti da stupore quando veniamo a sapere che queste navi hanno i loro “fuochi spenti”, che il porto è “in rovina”, e che ovunque si spande la notte, una notte stellata in cui risuonano grida di bambini “dentro camere chiuse”? E non ci si stupirà altrettanto, e anche con un po’ di riprovazione, di sentirmi dire che questa pittura di Claude così compiuta, uno dei suoi capolavori, Psiche davanti al castello d’Amore, non è “altro che un abbozzo”; e che per di più è – cosa non vera – il suo ultimo quadro?
E in effetti è fin troppo chiaro che in questa poesia è di me stesso che parlo, inoltrandomi molto lontano e in gran profondità nei miei ricordi di bambino. E non considero i quadri di Claude Lorrain per quello che sono in realtà, immagino ciò che sarebbero diventati […] se fossi stato io il pittore, con un altro passato e altre fatalità che non quelle di Claude, ma con la stessa visione e, devo dirlo, lo stesso sogno».
Quando leggiamo le quartine della lirica leggiamo dunque un accenno di ékphrasis riferita all’intera pittura di Claude Lorrain, ma che si rovescia in ékprasis (se una tale ékphrasis esiste o può esistere) dello stesso scrivere in poesia di Bonnefoy, di una scrittura che affonda le proprie radici nell’infanzia più remota e che, visionaria come l’arte del pittore, entra in porti sconosciuti avvertendo una sororale prossimità al dolore di Psiche, scacciata per aver voluto spiare il volto di Amore – la poesia moderna rimarrà dunque sempre “nient’altro che uno schizzo, un abbozzo” (anche quando ha chiaramente i tratti del capolavoro)? È essa “dipingere di notte”, sognare sguardi e soli?
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