Carlo Levi, L’Orologio, Einaudi 2015
“Io parlavo ad essi dei miei propositi, del modo come intendevo fosse diretto e amministrato il giornale: parlavo di edizioni, di corrispondenti, di riforma generale di indirizzo. Dicevo cose che avevo meditato a lungo, che mi parevano importanti, e che erano in verità importanti e necessarie. Ma sentivo che la mia voce cadeva nel vuoto: che essi, questo gruppo di uomini, tutti di grande valore, che avevano mostrato solo pochi mesi prima così illustri doti di coraggio, di disinteresse, di libertà vera, facevano mostra di ascoltarmi, ma pensavano ad altro. Capii che la mia scelta a quel posto era dovuta in gran parte a un compromesso fra due opposte fazioni, a me ignote; che non interessava veramente a nessuno che io facessi questa o quella cosa, ma che forse era preferito dai più, per ragioni a me altrettanto ignote, che io non facessi nulla; che tutto sarebbe stato indefinitamente rimandato, che legami a me incomprensibili legavano gli uomini. Sentii che, ancora una volta, ero caduto in uno stagno di interessi e di intrighi di cui mi sarebbe sempre sfuggita la ragione, in un mondo chiuso e impenetrabile.
Eravamo seduti sul davanzale della terrazza, e parlavamo nell’ombra crescente: e sotto si apriva la fossa della strada, e l’oscuro mormorio della città. E mi pareva di essere tornato in un villaggio di Lucania, e di ascoltare i Signori conversare dei loro odî eterni e della eterna noia, seduti sul muretto della piazza, sopra il burrone, davanti alla distesa delle argille coperte d’ombra.”
Pubblicato nel 1950 L’Orologio è uno dei migliori esempi di narrativa politica del dopoguerra, un’appassionata testimonianza sullo sfaldamento delle forze politiche antifasciste che cambiò il destino dell’Italia.
Un orologio che si rompe dà l’avvio alla storia di tre giorni e tre notti nel novembre del ’45, che segneranno una svolta epocale per l’Italia. La fine del governo resistenziale di Ferruccio Parri, l’inizio della crisi dei partiti liberale e azionista, l’avvento al potere di Alcide De Gasperi e della Democrazia cristiana, e soprattutto Roma e l’Italia di allora: un complesso intreccio di avvenimenti politici e di condizioni umane, una tensione e un pathos che coinvolgono il lettore, rivelando la temperatura di una stagione traboccante di vitalità e nello stesso tempo vulnerabile di fronte a tutte le illusioni.
Dalla quarta di copertina
C. Levi, L’Orologio, Einaudi 2015. Introduzione di Mattia Acetoso.
Carlo Levi nasce a Torino nel 1902 in una famiglia della buona borghesia ebraica (la madre era sorella di Claudio Treves, uno dei leader socialisti riformisti). Nel 1918, poco dopo la fine della guerra, incontra Piero Gobetti e, per quanto molto giovane, inizia a frequentare il suo gruppo. Nel 1922 pubblica il suo primo articolo sulla «Rivoluzione liberale». Allievo di Casorati, nel 1924 partecipa alla Biennale di Venezia con un quadro. Nello stesso anno si laurea in medicina. Nel 1929 prende parte al movimento pittorico «dei Sei» di Torino. Aderente a «Giustizia e Libertà», nel 1935 viene arrestato e inviato al confino in provincia di Matera. Da questa esperienza nel 1945 pubblica Cristo si è fermato a Eboli. Nell’immediato dopoguerra dirige «L’Italia libera», organo del Partito d’Azione, e successivamente collabora con molti altri giornali. Contemporaneamente proseguono anche le attività di pittore e di scrittore (L’orologio, 1950; Le parole sono pietre, 1955; Il futuro ha un cuore antico, 1956; La doppia notte dei tigli, 1959; Tutto il miele è finito, 1964). Nel 1963 viene eletto al Senato come indipendente nelle liste del Pci. Rieletto nel 1968. Gravemente malato di diabete, muore a Roma nel 1975. Nel catalogo Einaudi anche Quaderno a cancelli e Scritti politici.