Fascinazioni

Antonin Artaud

 

[…]

Senza fare letteratura, ho visto la faccia di van Gogh, rossa di sangue nell’esplosione dei suoi paesaggi, venire verso di me,

Kohan
taver
tensur
purtan

in un incendio,
in un bombardamento,
in un’esplosione
a vendicare quella pietra da macina che il povero van Gogh il pazzo si portò al collo per tutta la vita.
La macina del dipingere senza sapere per cosa né per dove.

Perché non è per questo mondo,
non è mai stato per questa terra che tutti abbiamo sempre lavorato,
lottato,
urlato di orrore, di fame, di miseria, di odio, di scandalo, e di disgusto,
che fummo tutti avvelenati,
benché da essa siamo stati tutti affatturati,
e che ci siamo infine suicidati,
perché in fondo siamo tutti, come il povero van Gogh stesso, dei suicidati della società!

Van Gogh dipingendo ha rinunciato a raccontare delle storie, ma la cosa meravigliosa è che questo pittore che è solo pittore,
e che è più pittore degli altri pittori, perché in lui la materia, la pittura, occupa un posto di primo piano,
con il colore preso così come viene spremuto fuori dal tubo,
con l’impronta, quasi uno dopo l’altro, dei peli del pennello nel colore,
con il tocco della pittura dipinta, come distinto nel suo proprio sole,
con la i, la virgola, il punto della punta del pennello stesso contorta dentro al colore, il quadro, malmenato, schizza in faville, che il pittore doma e rimescola da ogni lato,
la cosa meravigliosa è che questo pittore che è solo pittore è anche fra tutti i pittori nati quello che più fa dimenticare che si ha a che fare con la pittura,
con la pittura per rappresentare il motivo che ha scelto,
e che fa venire incontro a noi, sporgente dalla tela fissa, l’enigma puro, il puro enigma del fiore torturato, del paesaggio sciabolato, lacerato e strizzato da ogni lato dal suo pennello ubriacato.
I suoi paesaggi sono vecchi peccati che non hanno ancora ritrovato le loro primitive apocalissi, ma che finiranno per ritrovarle.
Perché i quadri di van Gogh mi danno tanto l’impressione di essere visti come dall’altro lato della tomba di un mondo in cui i suoi soli, in fin dei conti, sono stati l’unica cosa che ruotò e illuminò con gioia?
Infatti, non è forse l’intera storia di quanto un giorno fu chiamato l’anima a vivere e a morire nei suoi paesaggi convulsi e nei suoi fiori?
L’anima che diede un orecchio al corpo, e van Gogh l’ha restituito all’anima della sua anima, una donna per rinforzare la sinistra illusione.

Un tempo l’anima non esisteva,
lo spirito nemmeno,
quanto alla coscienza, nessuno ci aveva mai pensato,
ma dov’era, del resto, il pensiero in un mondo fatto unicamente di elementi in piena guerra subito distrutti non appena ricomposti,
perché il pensiero è un lusso di pace.
E qual è il pittore che, meglio dell’inverosimile van Gogh, ha capito quanto c’era di fenomenale nel problema, poiché ogni suo vero paesaggio è come in potenza nel crogiolo dove sta per ricominciarsi.
Allora, il vecchio van Gogh era re, e contro di lui, mentre dormiva, fu inventato il curioso peccato detto della cultura turca,
esempio, ricettacolo, movente, del peccato dell’umanità, la quale non ha saputo mai fare altro che divorare, al naturale, l’artista per farcire la propria onestà.
E con ciò, non ha mai fatto altro che consacrare ritualmente la propria vigliaccheria!
Perché l’umanità non vuole darsi il fastidio di vivere, di entrare in questo naturale sgomitare di forze che compongono la realtà, per trarne un corpo che nessuna tempesta potrà più intaccare.
Ha preferito sempre accontentarsi semplicemente di esistere.
Quanto alla vita, ha l’abitudine di andarla a cercare nel genio dell’artista.
Ora van Gogh, il quale s’è fatto cuocere una mano, non ha mai avuto paura della guerra per vivere, cioè per strappare il fatto di vivere all’idea di esistere,
e tutto può esistere, certo, senza darsi il fastidio di essere,
e tutto può essere, senza darsi come van Gogh il forsennato il fastidio di splendere e sfolgorare.

[…]


A. Artaud, Van Gogh Il suicidato della società, Adelphi 2003. A cura di Paule Thévenin. Traduzione di Jean-Paul Manganaro con la collaborazione di Camille Dumoulié e Ena Marchi.

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