Trasfusioni

Johannes Bobrowski, Pescatori notturni, a cura di Antonio Devicienti

 

Pescatori notturni 

Tra le belle fronde 
il silenzio 
inviolato. 
Luce 
con le mani 
sopra un muro. 
La sabbia fuoriesce dalle radici. 
Sabbia, rossa, va’ 
smossa nell’acqua, 
va’ sulla traccia delle voci, 
va’ dentro il buio, 
esponi il pescato nel mattino. 
Le voci stanno cantando pallide come d’argento, 
porta via, 
al sicuro, 
tra le belle fronde le orecchie in ascolto, 
le voci cantano: 
quel ch’è morto è morto. 

 

Nachtfischer

Im schönen Laub
die Stille
unverschmerzt.
Licht
mit den Händen
über einer Mauer.
Der Sand tritt aus den Wurzeln.
Sand, geh rot
im Wasser fort,
geh auf der Spur der Stimmen,
im Finstern geh,
leg aus den Fang am Morgen.
Die Stimmen singen silberblaß,
bring fort,
in Sicherheit,
ins schöne Laub die Ohren,
die Stimmen singen:
tot ist tot.


Johannes Bobrowski (Tilsit, nei pressi di Königsberg oggi Kaliningrad, 1917 – Berlino Est, 1965) tematizza nei libri in poesia pubblicati in vita e nel suo lascito la cultura, la vita quotidiana, il paesaggio dei territori orientali tolti alla Germania dopo il maggio del 1945, quelle vaste regioni in cui sono convissuti per secoli (e talvolta non senza tensioni) Tedeschi, Russi, Polacchi, Lituani, Ebrei, Lettoni, Estoni e alle quali attribuisce il nome di derivazione classica Sarmatien (Sarmazia).
Il 19 luglio 1963 Bobrowski compone Pescatori notturni che allega a una lettera inviata al poeta e traduttore dal tedesco in inglese Michael Hamburger il quale il 23 luglio gli chiede spiegazioni circa il testo, pur dichiarandosi consapevole del fatto che i testi bobrowskiani non permettono di essere parafrasati; il poeta risponde il 7 agosto che ha voluto tematizzare l’impossibilità di un rapporto felice e completo con tutto ciò che vive, che non si tratta affatto di una poesia della o sulla natura, che i versi nascono da un periodo di depressione e che, in ogni caso, egli non vuole incolpare nessuno dell’impercorribilità di una relazione vera col reale vivente, ma soltanto sé stesso.
Collocato all’interno dell’opera di Johannes Bobrowski il testo Pescatori notturni si delinea come un processo di rasciugamento della materia concettuale e linguistica: le belle fronde di un albero abitate dal silenzio, quindi un muro sul quale si accende una luce e contro il quale si scorgono delle mani, quindi la sabbia che esce dalle radici dell’albero e l’invocazione diretta alla sabbia stessa; la presenza dell’acqua fa capire che il luogo è quello classico del poeta tedesco, una terra di fiumi e di laghi nella quale la pesca è una delle attività principali. E con grande probabilità la pesca (notturna) è metafora della creazione poetica, la bellezza delle fronde e il silenzio ivi allogato la possibilità stessa della poesia, la luce e le mani potrebbero indicare il fare poetico il cui frutto appare visibile alla luce diurna; ma le voci che cantano dicono di una patria perduta, morta – è il tema della nostalgia per le terre da cui i Tedeschi sono stati scacciati per propria colpa, Bobrowski lo sa bene e ripetutamente ne ha scritto, anche sulla scorta della propria esperienza di soldato combattente sul fronte orientale e poi prigioniero per diversi anni dell’Armata Rossa. La preghiera di “portare le orecchie tra le belle fronde” è infatti preghiera di non udire il canto funebre che sigilla l’addio definitivo dalla Sarmazia, per sempre perduta.
Non è affatto facile tradurre “unverschmerzt”, vocabolo che per i lettori è diventato una sorta di cifra che identifica la scrittura di Bobrowski: “non ferito dal dolore, inviolato, non danneggiato” come è, invece, il ricordo struggente dei fiumi e delle terre della Sarmazia, regioni ospitali per popoli dalle diverse radici e capaci di convivere in una quotidianità di scambi e d’incontri, benché sempre insidiata da differenti imperialismi e razzismi (quello nazista, quello sovietico, quello antisemita…) che hanno portato alla disgregazione definitiva di un’armonia possibile e che è stata, quindi, ferita a morte dal dolore, offesa e definitivamente distrutta.
Il distico “Sand, geh rot / im Wasser fort” presenta un’accentuata rima tra “rot” (rossa in riferimento alla sabbia) e “fort”, prefisso separabile del verbo “fortgehen” (andare via, allontanarsi) e mi sono provato a rendere con l’espressione “va’ / smossa nell’acqua” la presenza dell’elemento liquido che mai manca nella lirica di Bobrowski e l’immagine della sabbia che scorre insieme con l’acqua, mentre per quel che riguarda il verso ” leg aus den Fang am Morgen” ho pensato a “(Fisch)fang” (quello che è stato pescato) e ho preferito tradurre il verbo “auslegen” con “esporre” (alla vista o alla vendita) anche seguendo l’interpretazione di una pesca notturna che soltanto alla luce del mattino può mostrare il suo risultato: scrivere poesia è un lavorio notturno che attende la luce mattutina per rivelarsi.
Ma anche l’aggettivo composto “silberblaß” (alla lettera argenteo-pallido) è arduo da rendere contenendo in sé il pallore che rimanda alla morte e il suono (argentino, lo definiremmo in italiano) di voci notturne che cantano.
In ultimo ho avvertito la necessità di tradurre “die Ohren” (le orecchie) con “le orecchie in ascolto” per cercare di rendere più perspicuo il testo in italiano: sono le orecchie che potrebbero essere ferite dal canto luttuoso che ricorda la Sarmazia definitivamente perduta (morta) e che il poeta vuole preservare non ferite dal dolore nello spazio intatto e bello delle fronde arboree. Ma già comporre una poesia come questa è segno di un dolore consapevole cui il poeta (e il lettore) non sfugge.

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