Fascinazioni

Carmelo Bene

  

[…]

Carmelo Bene parla e gioca. Prima di calare una carta si concentra a lungo, le rughe gli si incidono sulla fronte per lo sforzo mentale che fa. Anche lo scopone, per lui, richiede un ossessivo ascolto interiore. E sono urla, pugni sul tavolo, se il compagno non risponde a tono. Decisamente, è un partner difficile, molto difficile.

[Riprende, cambiando argomento.]
Adesso il mio combattimento è con Alessandro Manzoni. Voglio fare l’Adelchi per le prossime celebrazioni manzoniane. Ma come aggredirlo? Come recuperare la Voce che lo ha ispirato? Manzoni mi intriga. Dice: la “provvida sventura.” E perché, per quale mistero, una sventura può essere “provvida”? C’è tutta la problematica cattolica dentro. Lo scandalo della croce. Cristo che si fa uccidere per salvare gli uomini e il Padre che lascia compiere il sacrificio. La questione cattolica, già. Io sono cattolico. Il mio teatro tende a diventare sempre di più un teatro religioso.

Religioso?

Sì, religioso in senso teologico. Non a caso, l’ho chiamato “Teatro dell’Assenza”. E chi è Dio se non l’Assenza assoluta, il punto vuoto in cui precipitiamo noi e le cose?

Così, sulla scena, tu cerchi di esprimere, di dare una voce a questo vuoto che è Dio?

Io non cerco di esprimere niente. Io sono la musica del Nulla. Non ho “messaggi” da offrire agli uomini. La mia voce è la voce del silenzio.

E cosa è il silenzio per te?

Un tempo musicale. E si intende che per me la musicalità è tutto. È la vita che si avvolge su se stessa, si sfalda, precipita nel Nulla. Da dove vengono le cose? Dove vanno? Ecco il problema. L’uomo, questa “creatura di un giorno” come diceva un antico poeta greco, è nient’altro che una “situazione”. Bisogna essere proprio degli incoscienti, o dei pazzi, o dei visigoti, per dire “io”. Noi siamo i cadaveri di noi stessi.

Come “cadavere”, riconosci che fai molto rumore….

Il mio è il “rumore” della vita che si fa Voce per dire il suo struggimento sulla scena dell’apparire. Se vuoi un’altra immagine di me, pensa alla mia persona come a una maschera del Nulla.

Che tipo di maschera?

Una maschera che risale all’alba del tempo. Io sono un uomo del sud, anzi del sud del sud. Vengo dalle rive di Omero, da quel mondo perduto che ha inventato la nostra vita. Sono un poeta che ha voltato le spalle all’evento e che scrive le sue storie sulla sabbia. Mio fratello è Eraclito, il filosofo che diceva che l’universo è un fanciullo che gioca. Il mio futuro è il mio passato. Il mio sigillo è l’inattualità.

Per questo il tuo linguaggio risulta spesso incomprensibile?

A chi? [Si ribella Carmelo Bene scagliando una carta azzardata che sconcerta i nostri avversari.] Ai gazzettieri? Ai visigoti che pretendono di alfabetizzare il linguaggio della poesia? Ma la mia voce non è fatta per loro. Per loro io semino al vento. Io non voglio, io non devo essere capito. La comprensione è dei cretini. La poesia bisogna intenderla con l’intelletto, non capirla con la grammatica. La grammatica recepisce solo il cadavere della poesia.

C’è chi ti accusa di usare le parole, a volte, solo per fare scandalo, per creare malintesi.

Ma questa accusa per me è un elogio. È il più bell’elogio che mi si possa fare. La parola è scandalo, perché in essa risuona la voce di Dio, il grande Assente del nostro tempo. E l’uomo che cos’è? Nient’altro che un “malinteso” sulla scena dell’esistere.

[…]


Dall’intervista “Io, la musica del nulla” di Giuseppe Grieco (“Spirali”, 1983) raccolta su Panta n. 30, 2012.

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