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Albert Camus Nicola Chiaromonte, In lotta contro il destino, Lettere 1945-1959, Neri Pozza 2021

  

38. Nicola Chiaromonte ad Albert Camus

Via Adda 53
Roma, 31 marzo [1954]

Caro Albert,

Gli unici momenti reali del mio soggiorno a Parigi sono stati quelli che ho passato assieme a lei, con la sua pena, con il suo affetto.
Sono passati press’a poco tredici anni da quando ci siamo incontrati sulla spiaggia di Algeri – ricorda? Lei era in compagnia dei suoi amici – abbiamo pranzato assieme. Mi avete accolto come uno di voi. Per me era, fra l’altro, il mio primo contatto con il mare, dopo sette anni di Parigi e di terraferma. In seguito, lei mi ha accolto nella sua casa a Oran e un pomeriggio siamo andati in bicicletta a fare il bagno su una spiaggia deserta. Non conoscevo lo scrittore, all’epoca, conoscevo solo Albert Camus e sua moglie, così commovente.
Ed è rimasto così, in seguito: un legame diretto e semplice – nato da uno dei rapporti umani più belli e veri: l’ospitalità.
Ho sempre sentito, in sua compagnia, la sicurezza del legame e una specie di contatto nei sentimenti che richiedeva molta discrezione, essendo forse più intenso e più profondo di quanto né l’uno né l’altro di noi avrebbe pensato.
Ed ecco d’improvviso questa tempesta in un mare scatenato.
A Parigi – dove lei ancora una volta e con il più grande affetto di sempre mi ha accolto come suo ospite – non ho più osato, dopo il primo giorno, parlarle di me. Quel che colpiva lei era ben più grave. Credo, tuttavia, di averle comunicato l’essenziale. Lei ha forse immaginato il resto attraverso la mia goffaggine – i tentativi che facevo di parlarle.
Quel che avrei voluto dirle e che non ho avuto il coraggio di dirle perché mi sembrava ridicolo – sta in una frase: «Non si senta colpevole, Albert, sarebbe la cosa peggiore». Preferisco non aggiungere niente a questo, perché sarebbe come fare della teoria – mentre la parola viene dal cuore.
Per me la cosa più terribile è stata l’incapacità di parlare – la rassegnazione muta alla non-comunicazione (con Miriam) dal momento che ogni parola poteva essere un colpo brutale. Di qui, la rassegnazione – a cosa? Alle azioni compiute, al tempo passato – all’età. Meglio, l’abdicazione. Mi sono sempre visto come l’altro mi vedeva – giudicato. Mentre Patricia non mi giudicava – non in questo senso in ogni caso. Verso di lei mi sentivo libero. Mi faceva orrore l’immagine di essere con lei sentendomi colpevole – cioè solo, rinchiuso, quale mi sento oggi.
Le parlo di me come se avessi capito qualcosa e potessi spiegarmi. Non è affatto vero – soprattutto in questo momento. Ma vorrei continuare a parlarle lo stesso.
L’ultima sera, a casa sua, non mi decidevo a partire – probabilmente le sarò sembrato indiscreto.
Ricordo con grande simpatia il suo amico Bénichou.
Le scriverò, caro Albert, e spero che lei sopporterà le mie chiacchiere.
Ho letto L’Eté – Mi piace soprattutto, in quelle pagine, la miscela di rabbia e di tenerezza – nella lirica, nella difficoltà di indicare le cose semplici, che lei fa provare al lettore: il mare, le rocce, gli alberi – come fossero cose fuggite nel più profondo di lei stesso. Per «Il Mondo», soprattutto in ragione del carattere del giornale, il capitolo più indicato mi sembra quello su Oran. Lo darò da leggere al direttore.
Non ho bisogno di dirle che una sua parola mi sarebbe carissima. Ma soprattutto non si senta in colpa se non risponde alle mie lettere.

Un abbraccio, caro Albert
Suo

Nicola

PS – Le rispedisco per posta il Godot.
Spero che la sistemazione della mia roba non le abbia causato perdita di tempo. Ho un po’ paura della confusione che Sabatelli mette in tutto ciò che fa.
Grazie,

N.

 

39. Albert Camus a Nicola Chiaromonte

5 maggio 1954

Caro Nicolas,

Volevo scriverle per ringraziarla della sua lettera, dell’affetto fraterno che mi ha dimostrato, e anche della fiducia che mi accorda. Sì, ricordo bene i nostri incontri in Africa. L’amicizia è una cosa strana. Il giorno in cui lei è partito per il Marocco, non sapevo neppure se ci saremmo rivisti e per di più tutte le circostanze belliche facevano pensare che ciò non sarebbe stato possibile. E tuttavia, io ero «certo» di lei, dell’avvenire che avremmo avuto in comune. Io l’ho riconosciuta: lei era nella decina di esseri con i quali sono sempre vissuto, anche in loro assenza.
A Parigi tuttavia, nel corso di quei troppo brevi momenti in cui ci incontravamo a casa sua, a casa mia, o con amici, non sono sempre stato disponibile con lei. Forse avevo qualche timore del suo giudizio. Mi sembrava che lei avesse rinunciato a molte cose, avesse optato per la morale. E io, con la mia vita lacerata, con le mie infinite debolezze che ben conoscevo, con in più quella terribile impressione doppiogiochista che mi veniva cucita addosso dall’immagine pubblica (come se opporsi a che ti uccidano o ti torturino equivalga a opporsi alla virtù! Naturalmente è vero il contrario) e alla quale non avevo saputo oppormi sufficientemente, avevo l’impressione di ingannarla un poco, o in ogni caso di non essere sincero con l’amico dal momento che tacevo. Ma come poter parlare in una vita tanto affannosa, tanto protesa verso tutti gli angoli dell’orizzonte? C’è un tale rumore nel mondo che si teme sempre di aumentarlo con la propria voce. E c’è stato bisogno di queste due disgrazie coniugali per sapere che né io né lei ci eravamo ingannati l’uno dell’altro.
Capisco, caro Nicolas, il suo sentimento. È insopportabile essere giudicati o sentirsi tali. Naturalmente, si possono trovare ottime giustificazioni, sapere che in fondo ce lo meritiamo e possiamo lasciar perdere, fare un sincero esercizio di umiltà, tutto ciò però non impedisce di restare paralizzati, privi di naturalezza e di libertà, svirilizzati. Eppure, non appena si contrae un vincolo, non appena ci si impegna, si accetta di essere giudicati e, se necessario, siamo noi stessi a giudicarci. Per questo l’adulterio, come dice la Scrittura, è una grande infelicità, per alcuni almeno. Perciò la fonte della gioia è inaridita e, dentro di sé, si sente una voce dire che non va bene, anche quando ci troviamo nel bel mezzo della più grande felicità. Una specie di scontentezza si insinua all’interno di ogni dono. Alla fine, una fonte di infelicità per tutti si insedia là dove c’era lo sforzo verso un’innocenza, verso un amore più nuovo e più vero.
Solo alcuni esseri, privilegiati, sono capaci di non giudicare mai. Sono una fonte di libertà, vi liberano nel senso pieno della parola. Per questo, l’amore che nutriamo per loro si colora di una straordinaria gratitudine. Che disgrazia e che strazio quando essi si trovano coinvolti, per caso dopo tutto, in una vita già soggetta ad altri legami, altrettanto forti, anche più forti perché pensati, altrettanto ricchi e rispettabili, ma senza la libertà ingenua, immediata, un po’ irresponsabile, che noi tutti sogniamo, uomini e donne, ma soprattutto gli uomini!
Sì, io la capisco e vorrei aiutarla. Ma so anche che in tutte le situazioni di questo genere si è disgraziatamente soli. L’unico aiuto viene dal sapere che un amico vi vuol bene e vi stima lealmente, sapendo quel che siete, e testimonia nel suo cuore in vostro favore.
Francine va un po’ meglio, sono contento di darle questa notizia. Se questo miglioramento persiste per una o due settimane, tornerà la speranza. Più di ogni altra cosa, desidero che guarisca e che torni fra noi. Ma dopo, si porrà ancora un’altra questione: quella della mia fatica di vivere, da qui in avanti. Come ritrovare le mie forze interiori, come continuare semplicemente a essere, ecco quello che non so. Eppure, è essenziale per la guarigione definitiva di Francine, ed è forse questo che mi sarà d’aiuto.
Mi scriva, caro Nicolas. Non c’è giorno che non pensi a lei e quelli che le sono cari… Un abbraccio.

A.

Le sue cose sono ben ordinate a casa mia, e non mi danno alcun fastidio. Non ho neanche visto Sabatelli. E la sua cassapanca sta molto bene nella sala da pranzo. Ha bisogno di qualcuna delle cose che sono qui? E Myriam? Le dica tutto il mio affetto.

  


«Bisogna essere stati soli e randagi per sapere il valore dell’ospitalità». Nella primavera del 1941, prostrato dalla perdita di Annie Pohl, la sua prima moglie, e dalla sensazione di non avere più speranze, Nicola Chiaromonte decide di partire per Marsiglia, facendo poi rotta per l’Africa.
Fugge da un’Europa devastata dalla guerra, fugge soprattutto dalla Francia, da «tutto ciò che poteva essere dolcezza, compagnia, consolazione»: la cerchia degli amici, innanzi tutto, e poi Parigi, la città raggiunta nel 1934 da esule antifascista, dove ha conosciuto Annie e stabilito un intenso sodalizio spirituale con l’intellettuale libertario italo-russo Andrea Caffi.
Giunto ad Algeri, viene introdotto nel gruppo dei giovani artisti, scrittori e giornalisti che, riuniti attorno ad Albert Camus e alla Maison Fichu, cercano di ricreare, grazie all’attività teatrale, un’esperienza fraterna ed egualitaria, ispirata alla bellezza e alla libertà.
All’epoca del loro primo incontro, Albert Camus ha appena terminato i suoi tre «Assurdi» – un romanzo, Lo Straniero, un saggio, Il mito di Sisifo, e una tragedia, Caligola – che esaminano il problema della società e del nichilismo contemporanei. Per Chiaromonte, tuttavia, la frequentazione di Camus e della sua cerchia, non è che l’occasione per ritrovare, in terra africana, «la Francia amata, il calore puro e netto dell’amicizia francese».
Soltanto qualche anno dopo, leggendo le opere dello scrittore francese a New York, Chiaromonte comprende che una profonda affinità spirituale lo unisce all’autore dello Straniero. Dall’esilio americano, durante i drammatici anni di guerra che condussero alla disfatta di Hitler e alla bomba atomica, dà allora avvio a un intenso scambio epistolare con Camus che dura fino alla morte di quest’ultimo avvenuta nel 1960.
Testimonianza, talvolta commossa e commovente, dell’«amicizia tanto intensa e pudica» che unì per due decenni due giganti del secolo scorso, la corrispondenza tra Albert Camus e Nicola Chiaromonte svela, attraverso la «dura fraternità degli uomini in lotta contro il destino», i segni di una stessa condizione umana e di un comune atteggiamento dello spirito nei confronti della barbarie e della violenza, che farà dire a Camus nel 1954: «Io l’avevo riconosciuta e lei era tra le decine di esseri con i quali avevo sempre vissuto, anche in loro assenza».

A. Camus N. Chiaromonte, In lotta contro il destino, Lettere 1945-1959, Neri Pozza 2021. A cura di Samantha Novello. Traduzione di Alberto Folin.

Titolo originale: Correpondance (1945-1959) Albert Camus Nicola Chiaromonte, ©2019 Éditions Gallimard, Paris.

Nicola Chiaromonte (1905-1972) è stato uno dei più originali e importanti saggisti e scrittori italiani del Novecento. Esule antifascista, rientrò in Italia soltanto nel 1953, contribuendo non poco a sprovincializzare la cultura italiana con la fondazione, insieme a Ignazio Silone, della rivista Tempo Presente. Tra le sue importanti opere un posto di rilievo spetta certamente a Credere e non credere, Milano, Bompiani, 1971.

Albert Camus (1913-1960) è stato uno dei più grandi scrittori del secolo scorso. Nacque in Algeria, dove studiò e mosse i primi passi come attore e giornalista. Tra le sue opere si segnalano Lo straniero, Il mito di Sisifo, La peste. Nel 1957 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Morì in un incidente automobilistico a Villeblevin.

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