Danilo Kiš
Allo scrittore esiliato dalla propria lingua rimane solo quella stessa lingua come segno del suo esilio. Egli continua a scrivere nella sua lingua come se fosse l’unico che, visto il prezzo pagato, non ha voluto soccombere all’ «esilio della sintassi». Questo perché, se è riuscito a sfuggire alla pericolosa uniformità di senso della nuova lingua, ciò è avvenuto soprattutto attraverso una netta presa di coscienza di quel che non si scrive semplicemente con le parole, ma con tutto il proprio essere, l’ethos e il mythos, la memoria, la tradizione e la cultura, lo slancio delle associazioni linguistiche, con tutto ciò che, attraverso l’automatismo della lingua, si trasforma nello slancio della mano (e viceversa).
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L’esilio, nient’altro che un nome collettivo per tutte le forme di alienazione, è l’ultimo atto di un dramma, il dramma della «non autenticità». Da molto tempo lo scrittore dell’Europa centrale si è ridotto a due sole convenzioni, quella ideologica e quella nazionalistica; dopo un lungo periodo di tentazioni egli capirà che non può ritrovare gli ideali della «società aperta», né nella prima né nella seconda sfera tra le quali gli si propone l’unica scelta possibile. Finalmente egli troverà nella lingua la sua unica legittimazione, e nella letteratura quella «strana e misteriosa consolazione» di cui parla Kafka. Un attaccamento pericoloso e liberatorio: il «balzo fuori dai ranghi degli assassini» Ma questa scelta non è priva di dubbi; nessuno si esclude dalla comunità senza poi pentirsene. Scommettere sull’eternità è altrettanto vacuo che scommettere sull’istante. Da qui il sentimento di «non autenticità».
Danilo Kiš, Homo Poeticus, Adelphi 2009.