Esperienze

Per sola voce

Per la rinuncia al contatto e il mascheramento di bocca e naso – misure valevoli contro ogni forma di contagio – la parola pronunciata sembra inciampare e frangersi contro una presenza resa remota e opaca, si può persino vederla precipitare in mezzo a quella distanza permessa che trattiene i corpi e soffoca i fiati. Anche il significato non fa che smarrirsi, quasi ancor più in quella articolazione che nell’essenzialità cerca la sua efficacia; l’intero enunciato cade dunque in frammenti, come posseduto dalla stessa infezione dell’aria. Non resta che l’enunciazione, atto di parola per sola voce, che spezza la continuità del vedere e crea il deserto del suo esilio. Non c’è più nulla da capire, si può soltanto acconsentire alla voce dell’altro e al suo voler dire. Ma anche questo altro viene restituito alla propria alterità, la sua voce ritorna infatti indietro come eco e volume, fino a fargli balbettare «qualcun altro parla in me». Profeta o posseduto. Era questa, infatti, l’affermazione delle possedute, in un tempo in cui, per nominare questa alterità interna, un’intera società disponeva delle parole «diavolo», «demonio» o «satana», termini che rimandano tuttavia a un’esperienza ancora fondamentale e indubitabile: la scoperta di un’estraneità di sé a sé, di una spaccatura del soggetto, di qualcosa di altro da me che è me.

«Je est un autre» scriveva Arthur Rimbaud e con questa formula mostrava l’esistenza di una faglia nel linguaggio, quella crepa che divide l’«io» dalla possibilità di un nome proprio e che la lingua della poesia non smette di scavare. Questa estraneità fuggente si (dis)conosce come tale e resiste a ogni esorcismo che vorrebbe riportarla in un linguaggio stabilito. Ma niente più della voce è evocazione diretta di questa fenditura, proprio per la sua appartenenza indecisa e indecidibile che la fa essere un entre-deux tra il corpo e un altrove, tra la materia e il nulla. Scrivere, invece, nella sua fissazione, significa in fondo accettare il limite, obbedire al tempo, consentire alla morte. Difficile congiungimento quello tra scrittura e voce. Vi è tuttavia un poeta che a tale congiungimento si è votato, anzi «inchiodato»: egli scrive gettandosi à corps perdu dentro la «svolta del respiro» – senza alcuna rete di metafore –, tende la sua voce fino a spezzare le corde della scrittura, spinge la lingua (e da essa a sua volta si lascia spingere) ai bordi dell’abisso della voce, di ogni voce, ai limiti di qualsiasi possibile significazione, e qui, dove la sua gola spalanca il pozzo del tempo, fa gemere le parole e di esse fa sacrificio, perché alla fine sia udibile una soglia originaria e vertiginosa, quella che le tiene sospese tra la nitidezza della fonazione, il rifiuto del grido e la sordità del silenzio.

Questo poeta è Domenico Brancale, che intende e vive la poesia a «voce disintimata» (Incerti umani, 2013), voce sfilata e rovesciata come la pelle di un animale, voce che perde ogni intimità afferrandola, mostrando quello stesso tormento che faceva confessare a Ignazio di Loyola di non poter prendere la parola senza perderla. La sua voce, la sua voce-poema è una sfida all’aria e alla sua pretesa di senso, uno sforzo teso ad aprire uno squarcio che gli faccia raggiungere ed essere «la semenza nel prima del respiro», in una «rincorsa impossibile» fino alla «diga dell’interdetto», diga del proibito certo, ma insieme, giacché letteralmente “inter-detto”, anche barriera del “detto tra”, spazio dunque dell’inaudito inaudibile, un «vuoto» che Domenico Brancale prende «in parola».

Rossana Lista

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