Grazia senza peso
La grazia, nella sua forma più pura, si manifesta «in quella corporatura umana che ha o proprio nessuna coscienza o una infinita, vale a dire nella marionetta o nel dio». È un noto passo del dialogo-saggio Sul teatro delle marionette di Heinrich von Kleist, il passo dell’impossibile se si pensa che a sostenerlo è un danzatore, anzi il primo ballerino dell’opera della città di M., il Signor C., che frequenta con assiduità gli spettacoli di marionette, di certo per il grande piacere che ne ricava, ammette, ma ancor più perché convinto che un ballerino, intenzionato a perfezionarsi, possa imparare dalle marionette molte cose. Tra queste, appunto, la totale assenza di coscienza, la cui presenza invece, anche quando minima, sembra imporre al più piccolo movimento l’inciampo in un’irrimediabile artificiosità. «Ogni movimento ci rivela», scriveva Montaigne, «ma ci rivela solo se è automatico (non ordinato, non voluto)» precisava Robert Bresson. Il regista francese – il regista che sosteneva che il più grande ideale dell’arte consiste nel non mostrare assolutamente nulla – era teso infatti a ricreare nel cinema l’automatismo della vita, non ricercava pertanto attori, ma modelli, che avrebbe sottoposto a innumerevoli rapide ripetizioni, fino a quando la coscienza non si sarebbe infine ritirata dall’esecuzione di gesti e parole. Solo l’automatismo avrebbe restituito quella grazia naturale, perché in fondo «il vero è inimitabile», e «il falso è immodificabile» (Notes sur le cinématographe).
Rispetto ai modelli di Bresson, le marionette di Kleist hanno un ulteriore privilegio: sono «antigrav», antigravità, non sanno nulla dell’inerzia della materia, la forza che le solleva in aria è pari a quella che le incatena al suolo. E del suolo hanno bisogno solo per sfiorarlo, mentre i ballerini lo cercano per riposarvi e riaversi dallo sforzo della danza, mai quindi potranno raggiungere le marionette in questa indifferenza. Dio soltanto può avere un tale confronto con la materia, ed è qui il punto in cui nessuna coscienza e una coscienza infinita si afferrano l’una l’altra a costituire le estremità di un mondo a forma di anello. Noi, “colpevoli” possessori di una quantità finita di coscienza, possiamo forse chiederci se dobbiamo mangiare di nuovo dell’albero della conoscenza per ricadere in quel primigenio stato di innocenza, ma in ogni caso, sentenzia il ballerino, ciò sarebbe l’ultimo capitolo della storia del mondo. Nel frattempo – ed è tutto il nostro tempo – non ci resta che prestare attenzione a quelle irruzioni della grazia che compongono una fenomenologia corporea degli antigravità. In questo esercizio visionario comparirà allora una figura che è prossima tanto alla marionetta quanto al dio, perché è il loro punto di fuga nella pulsante innervazione del corpo: il ginnasta, nell’unione e nella differenza di maschile e femminile. Muscoli, nervi, tendini, pelle e ossa, l’intera sua carne sembra liquefarsi in quella fluidità plastica e incandescente che fu forse l’istante infinito della creazione. Contro il suolo così si scaglia nell’urto che lo fa esistere, il suolo è il suo oppositore, il serpente e il lottatore a cui strappare il proprio nome, al suolo ruba prometeicamente il fuoco, l’energia che lo scaraventa come ribelle corpo celeste negli spazi muti dell’assenza: lì, simile al Newton di Blake, prova a disegnare le geometrie esatte di una coscienza assoluta.
Rossana Lista
Foto di copertina: per gentile concessione di Fabio Maglioni, ginnasta e artista del volo.
Guauuu !!!Bella reflezione!! solo che per arrivare al automatismo c’e’ tanto lavoro dietro.
Bellissimo testo. Acuto e pieno di spunti di riflessione.