Fascinazioni

Maurice Blanchot

 

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Si potrebbe quindi dire che l’Aperto è incertezza assoluta e che mai ne abbiamo scorto il riflesso, mai in alcun volto e mai in alcuno sguardo, perché qualsiasi riverbero rimanderebbe comunque già a una realtà figurata. «Sempre c’è mondo e mai un Nessun luogo senza nome.» Quest’incertezza è fondamentale: se ci avvicinassimo all’Aperto come a qualcosa di certo, quel che è certo è che lo mancheremmo. Ma la cosa che più colpisce, e in cui sta la particolarità di Rilke, è come egli rimanga tuttavia certo dell’incerto, quanto tenga a spazzar via eventuali dubbi, ad affermarlo come speranza piuttosto che come angoscia, con una fiducia che non ignora la difficoltà dell’impresa, ma che ne rinnova di continuo il gioioso annuncio. Come se fosse certo che in noi vi sia, per il fatto stesso di essere «volti», la possibilità di volgerci, la promessa di una riconversione fondamentale.
In effetti, se torniamo a considerare i due ostacoli che ci tengono in una vita rivolta verso una vita limitata, sembra che l’ostacolo principale, che poi è la nostra cattiva interiorità – giacché vediamo che gli animali, che ne sono sprovvisti, possono accedere a quel che a noi è precluso -, questa cattiva coscienza, da potenza che rinchiude e congeda che era, possa diventare potere di accoglienza e di adesione: non più, quindi, ciò che ci separa dalle cose reali, bensì ciò che ce le restituisce nel punto in cui esse sfuggono allo spazio divisibile per entrare nell’estensione essenziale. La nostra cattiva coscienza non è cattiva perché è interiore e perché è libertà oltre i limiti oggettivi, ma perché non è abbastanza interiore e non è affatto libera, e in lei, come nel cattivo spazio esterno, regnano gli oggetti, la preoccupazione dei risultati, il desiderio di avere, la cupidigia che ci lega al possesso, il bisogno di sicurezza e di stabilità, la tendenza a voler sapere per essere sicuri, la tendenza a «rendersi conto» che diventa giocoforza inclinazione a contare e a ridurre tutto a un conteggio – destino stesso del mondo moderno.
Se vi è quindi una speranza che ci voltiamo, è nel distoglierci sempre più, attraverso una conversione della coscienza che – invece di ricondurla verso quel che chiamiamo il reale e che poi non è altro che la realtà oggettiva, in cui rimaniamo nella sicurezza delle forme stabili e di esistenze separate, invece di mantenerla alla stessa superficie, nel mondo delle rappresentazioni che è mero raddoppiamento degli oggetti – la volgerebbe al contrario verso una più profonda intimità, verso un’interiorità e un’invisibilità maggiore, ove non siamo più ansiosi di agire e di fare, ma siamo bensì liberi da noi, dalle cose reali e anche dai fantasmi di queste cose, «abbandonati, esposti sulle montagne del cuore», vicinissimi a quel punto in cui «l’interno e l’esterno si riuniscono in un unico spazio continuo».
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M. Blanchot, Lo spazio letterario, il Saggiatore 2018. Postfazione di Stefano Agosti. Traduzione di Fulvia Ardenghi.

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