Fascinazioni

Jean-Marie Gustave Le Clézio

 

L’artificioso

Ciò che di veramente tragico c’è nell’individuo, è il fatto che esso è contemporaneamente adempimento e fatalità. Esso non possiede. Appartenendo agli altri, legato dall’apparenza della comunicabilità, modificato dalla società, l’individuo è un punto d’incontro di forze. Il centro di una implosione, nella quale tutte le energie provenienti dal di fuori si riuniscono ed entrano da se stesse nella violenza e nel caos dell’esiguità.

In quanto individuo, io non avrò nessuna libertà e nemmeno quella di credere alla mia sincerità. I miei ideali, l’idea che mi faccio del mondo, la mia religione, quel che penso, dico, scrivo, tutto questo non mi appartiene. Non è stata mia la decisione di ciò. Sono stato praticamente soltanto lo zimbello dell’illusione della libertà. Niente mi sembrava più libero dell’intelligenza. Bianco, nero, nero, bianco, dominavo, immaginavo di dominare. Il mio orgoglio arrivava fino a credere che il mio ragionamento avesse il sopravvento sulla realtà. Tanto questa sottile elaborazione dell’immaginario, del linguaggio – talvolta persino al limite dell’onirismo – era, sembrava, il mio bene incontestabile. Credevo di poter fare delle parole, delle mie parole, quel che volevo.

Tuttavia, niente di questo era vero. Le parole non mi appartenevano. Il linguaggio non era il mio bene. E il ragionamento astratto, la costruzione illusoria e squisita dell’immaginario mi tradivano continuamente, senza che lo sospettassi.

Credevo che le mie opinioni, i miei sentimenti, la mia morale provenissero da me, naturalmente. Certo sapevo di essere formato dal marchio sociale, ma mi sembrava che dovesse esserci una sorta di libero arbitrio, una scelta possibile. Una scelta fra diverse qualità di catene. M’ingannavo. Non c’era scelta.

Tutto ciò che proveniva da me, proveniva dagli altri. Tutto. Le mie idee generose, il mio umore, i miei gusti, la mia morale, il mio orgoglio. Niente era mio. Avevo preso tutto. L’avevo rubato, ed ero stato costretto a richiuderlo in me. La coscienza, il rifiuto, l’ostilità agli altri, sempre gli altri. La lucidità, il coraggio, l’assoluto: gli altri, gli altri, gli altri.

Presto o tardi, l’uomo avverte di vivere in seno a una società. Ne comprende le responsabilità e gli obblighi. Allora gli occorre una ideologia. Lascia crescere in sé, al contatto di questa realtà, una sorta di umanismo diffuso che lo spinge ad amare il prossimo, a cercare il calore fraterno. Se considera con serietà questo umanismo, gli risulta che i sentimenti non sono sufficienti, e che bisogna costruire un sistema etico. Egli sublima i sentimenti e le regole prime della coesistenza (educazione, rispetto della proprietà altrui, pietà, generosità, eccetera) per accedere ai grandi problemi del mondo. Se questa sublimazione si accompagna alla disincarnazione, quest’uomo approda alla menzogna, all’artificioso.

Come è potuto accadere ciò? Come si è manifestato questo slittamento di sensibilità? Come questo umanismo che da principio era un sentimento semi-naturale è diventato un’ipocrisia, una duplicità? È la conseguenza di averne voluto fare un sistema?

Alla fine si prospetta l’intero problema dell’impegno sociale. E anche di più, il problema della sincerità. In quale preciso momento si cessa di essere sinceri per diventare lo zimbello di una illusione? Quando avviene questa sclerosi, questo indurimento di ciò che era «sentito», questo passaggio all’astrazione, questo gioco? Di nuovo vedo aprirsi davanti a me l’abisso dell’autorità degli altri, il gorgo irriducibile che fa sì che io non sia io, ma un riflesso, un’eco, una futilità disprezzabile e ridondante.

Perché anche se l’Io non esiste mai totalmente, anche se io sono soltanto il prodotto dello spirito, dei costumi, degli obblighi e dei paesaggi del mio mondo, c’era un momento in cui questo Io esisteva, in cui esso era fatto da una specie di accordo comune, di pace relativa, e c’è stato un altro momento in cui questo Io s’è dissolto, lasciando posto soltanto allo schermo, ai giochi del linguaggio vuoto, senza carne, senza pensiero.

C’è stato un momento in cui ho forzato quello che dovevo semplicemente vivere, e, per la gloria di un sistema logico, ho abbandonato il mio essere per l’ignoranza della certezza.

Ho lasciato che avvenisse questo rovesciamento irreversibile per la forza di un «credo». Ora, per paura di cadere di nuovo nell’angoscia del nulla, preferisco la bellezza brillante e vana del sistema astratto. Sono molti quelli che, se si ripiegassero su se stessi, si accorgerebbero che la loro vita è stata soltanto inganno, e che la loro ideologia artificiosa era soltanto trompe-l’oeil. Non si sfugge tanto facilmente alla solitudine. Certo, il dubbio non è costruttivo, e l’illusione è una forza che può smuovere le montagne, come la fede. Ma a che serve smuovere le montagne, quando noi stessi siamo soltanto sgretolamento, e quindi un semplice sguardo di lucidità può farci crollare?

L’uomo commette i più grandi peccati non per colpa dei sentimenti, ma per colpa dell’intelligenza. Bisogna anche saper rifiutare il piacere di aver compreso, e rinunciare all’orgoglio del didattismo. La fede non viene perché si ha bisogno di lei per essere felici. L’amore dell’umanità non è facile, e non ha a che veder nulla con la coscienza tranquilla.

Questo significa che non si può avere genialità e sincerità? No, ma essendo la menzogna e l’artificio i fondamenti della nostra vita sociale, bisogna diffidare di tutto ciò che ha radice al di fuori delle nostre emozioni. Bisogna ritornare incessantemente a noi stessi, approfondirci, conoscerci. Soltanto con l’approssimarci ai nostri propri misteri possiamo elevarci verso il mistero generale. La nostra unità, la nostra infelice unità fatta di tante disparità, bisogna cercarla. Solo in lei si trova la chiave dei giudizi, delle morali, e delle verità universali, se ci sono.

[…]


J.M.G. Le Clézio, Estasi e materia, BUR 2009. Traduzione di Massimo Binazzi e Michele Maglia.

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