Esperienze

Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, di Marco Ercolani

 

Io non sono assolutamente idiota, anzi sono sensibile a ogni cosa ragionevole; […] solo, talvolta leggo un po’ troppo.

(Robert Walser, La rosa)

 

Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956 è un mio libro apocrifo che ho pubblicato nel 2016, prima come Zibook per il sito Zibaldoni.it e poi come  libro stampato per le edizioni Robin (2014).
Robert Walser ha richiesto da me qualcosa di più del semplice atto della lettura: leggerlo è stato un atto di identificazione con l’ininterrotto mormorio delle sue frasi, con una parola che chiacchiera all’infinito sull’orlo del precipizio, “grazia” del dicibile sopra l’”abisso” del non-detto.
Il lettore ha il compito di restituire allo scrittore che legge i testi qualcosa di essenziale: deve parlare con lui. È la conversazione del vivo con un morto che è ancora vivo insieme a lui: è l’illusione che non sia ancora accaduta nessuna morte, che tutto sia sempre co-possibile fra noi vivi e chi ha smesso di esistere. Lo scrittore che ci ha smosso/commosso torna ancora vivente. E per un attimo il lettore è anche lo scrittore, nel tempo della finzione narrativa. È questa ininterrotta conversazione quella che ho evocato nel libro: da un lato Karl Weiss (giovane dottore, psichiatra dell’ospedale di Herisau dove Walser era internato; il suo nome evoca Edoardo Weiss, che fu psicoanalista di Umberto Saba ma il personaggio è totalmente inventato); dall’altro, Robert Walser (la sua parola, non scritta, detta a voce alta, pronunciata durante le passeggiata, trascritta negli appunti di Weiss, non ancora consegnata a un testo preciso).

Su questa conversazione-monologo, che io immagino accada negli ultimi anni di vita di Robert Walser (anche in omaggio al bellissimo Passeggiate con Robert Walser di Carl Seelig che fece conoscere a un pubblico più vasto l’opera dello scrittore di Bienne), aleggia il mistero dei microgrammi: si tratta di cinquecentoventisei fogli scritti sopra buste, biglietti da visita, lettere, attestati, tutti fogli vergati con una grafia tanto miniaturizzata da essere quasi illeggibile, fitta di testi, senza correzioni o cancellature, che occupano l’intero spazio del foglio: i microgrammi sono prose brevi, poesie, dialoghi, ma fra di essi è “nascosto” un intero romanzo, Il Brigante. Questa scrittura, quasi indecifrabile, sembra una forma altra del silenzio tanto cercato dall’autore, quasi a dire che, attraverso la dissimulazione della micrografia, lo scrittore vuole scrivere ma anche non essere letto.

Ho inventato Preferisco sparire ispirandomi a Walser perché Robert Walser, pur essendo un classico della letteratura tedesca, resta un autore sempre poco letto e talvolta misconosciuto; e il gentile pudore della sua vita di vagabondo, copista, servitore, commesso, bibliotecario, fattorino, assistente, ragazzo “fallito alla vita”, inoperoso perdigiorno che scrive migliaia e migliaia di pagine per commentare il suo discreto assentarsi dalla vita, mi ha permesso una doppia identificazione: quella con il giovane dottor Weiss, che tace e non pone domande, e quella con il vecchio Walser, che continua a parlare, a voce alta, delle sue letture, delle sue emozioni, della sua idea di mondo. Sembra che durante la narrazione non accada nulla, ma alla fine del libro tutto appare più fluttuante ed instabile, come sospeso su un precipizio. Come accade a me, nella vita di tutti i giorni, quando svolgo la professione di psichiatra che ascolta e di scrittore che trascrive le follie, mai restandone del tutto immune.

Io ho amato Walser per il suo modo di follia: non il violento delirio che, come il tripudio di contrasti cromatici in Van Gogh, si oppone al mondo frontalmente, ma il silenzio malinconico che vuole, obliquamente, dissolverlo. Un’aura di mistero non smette di emanare dal lungo silenzio del suo internamento manicomiale. Perché non si sa ancora se, negli ultimi anni, Walser abbia realmente smesso di scrivere, come ha spesso dichiarato con irritazione, o invece abbia affidato ai suoi microgrammi un qualche testamento postumo. Il mio libro si pone queste domande ma senza volerle né poterle risolvere. Reinventa un ipotetico monologo fissandolo in frammenti di scrittura.

Io immagino spesso, oltre la reale presenza di un autore e di un libro, un’altra sua opera ipotetica; mi piace oltrepassare i testi scritti, consegnati alla storia della letteratura, per arrivare a quelli possibili, che avrebbero potuto essere scritti. Preferisco sparire è un immaginario libro-conversazione ma è anche la scommessa di un libro che non può mai concludersi veramente e che sarà sempre di più e sempre di meno del libro finito, classificabile, giudicabile da critici e filologi: racconto fantastico, appunto diaristico, lettera personale, frammento, libro  ancora e sempre progettuale. Tutto, alla fine, è irreparabile silenzio. Neppure la scrittura trattiene e salva. Ma si può combattere l’irreparabile fuggire della vita con una fantasia che capovolga, reimmagini e ricrei quello che è accaduto, perché così come è andata, la vita non va affatto bene, e l’arte, la metafora dell’arte, ci ricorda sempre che alla vita non si può soggiacere: occorre trasformarla perché «si vive per uno scopo altro da noi» (Novalis). Walser, e i personaggi che ha inventato, sono  esseri “altri da noi”.

Potrei chiedermi: «Perché ho scritto questo libro?», e rispondermi: non lo so, non ne sono del tutto cosciente. Credo di non avere scelto solo io. Credo di “essere stato scelto”. Non ho voluto né imitare né prevaricare ma solo mettermi a sognare. E si sogna avendo bisogno di un complice, di uno specchio. Robert Walser lo è stato. Io mi sono riflesso in lui (tutti i brani del libro, esclusi due microgrammi, sono miei, e non ho faticato troppo a mantenere la leggerezza della scrittura walseriana, per sua natura immune dall’enfasi autoriale).

Essere Walser e non esserlo, essere un io che evoca le parole dell’altro per dire, con maggiore autenticità, le proprie, attraverso quella maschera: qui inizia e finisce la mia “rapsodia fantastica”. Inventarmi un Robert Walser che chiacchiera con uno psichiatra è anche il desiderio di ri-sognare il passato per renderlo ancora presente: è il desiderio di portare alla luce la voce del folle e il silenzio dello psichiatra che lo ascolta.
Walser, proprio per le evidenti offese subite dal destino, per l’intollerabile tristezza delle mancanze affettive, per la palese incompletezza dell’opera, mi ha come chiamato a riscrivere, in modo fantastico, certe parti perdute di sé. Non si tratta, naturalmente, di voler “completare” nulla, ma, al contrario, di ampliare i confini dell’incompletezza, sottolineando l’intensità e la suggestione di una polifonia psichica.
Percepisco delle somiglianze, delle consonanze, delle combinazioni, fra il mio pensiero e il reale pensiero dello scrittore svizzero. Come sempre accade nella scrittura apocrifa. Il nodo essenziale dell’avventura apocrifa – scrivere coscientemente al posto di un altro, sparire nell’altro – , è lo scambio delle identità, non come gioco intellettuale o parodico o imitativo, ma come esperienza di uno sciamanesimo naturale: colloquio non terminabile, che porta il vivo oltre il regno dei vivi e sottrae il morto al silenzio dei morti: rapporto con un passato che ci continua a parlare.

La necessità di parlare. La lotta contro il silenzio, il lutto, l’ingiustizia. Poter reimmaginare Robert Walser che parla ad alta voce: ecco la gioia da ricreare. Occupare il suo silenzio con un’altra opera. Scrivere un notes magico che, poi, domani, sarà a sua volta dimenticato. Creare una scrittura che, nell’intrecciarsi di ipotesi e di possibilità, è potenzialmente infinita. Ogni scrittura in fondo è questo palinsesto. Ogni libro autentico è processo di rigenerazione e di catastrofe, atto di onnipotenza demiurgica e suo necessario fallimento.
Nella mia vivente conversazione con Walser sperimento entrambi i momenti: la ricostruzione di un processo creativo e la consapevolezza del suo dissolvimento. So di stare scrivendo un sogno, una fantasia che non corrisponderà a niente di vero, anche se lo evoca. Quindi, alla fine, fallirò – ma dopo l’esplosione e la fioritura di molte metafore che fanno pensare a una felice onnipotenza, a una magica ri-costruzione di testi perduti.

Ogni libro autentico è un compromesso fra l’intenzione dell’autore e l’interpretazione del lettore, che crea il libro leggendolo: nel mio caso ho aggiunto una complessità in più. Il lettore di Robert Walser – io – diventa a sua volta autore, interprete che decide di rimettere in movimento un processo creativo, di dare forma al suo sogno, e così riscrivere a frammenti il suo monologo invaso dalle voci, identificarsi con Walser che parla, mostrare la scrittura di questo sogno. Ogni lingua cerca da sempre i suoi auctores, non è mai proprietà di un solo scrittore, ma di chi l’ha preceduto e di chi lo seguirà, dei lettori che la attraversano.

Io mi sono fatto possedere da un sogno intorno alla figura e alle opere dello scrittore di Bienne. Ho parlato del “mio” Robert Walser come di una figura di confine fra gli autori Marco Ercolani e Robert Walser, entrambi reali e irreali abitanti di una terra nuova, dove le identità possono ancora moltiplicarsi e rispecchiarsi, trasformando lo spazio-tempo in un paradosso della relatività. Come scrive l’amica e poeta Silvia Comoglio: «Il tempo viene oltrepassato e corretto nell’intreccio di pensieri che co-esistono e si fanno culla/urna/brocca di una temporalità che si sostanzia nella tua costruzione e ricostruzione continua: culla/urna/brocca, ossia tutti “recipienti” che contengono ma con modalità e funzioni diverse e che imprimono al tempo connotazioni diverse. Nascita morte e offerta. Se è vero che tutte queste realtà sono presenti è anche vero che dei tre recipienti/modalità la brocca sia quello che più appartiene a te e al tempo che costruisci. La brocca, infatti, accoglie, accoglie nel tuo caso la contemporaneità di tutti i possibili stati, per farsi offerta, per offrirci un tempo che si fa ed è fertile, perché non è successione di eventi conclusi, ma contemporaneità assoluta in cui tutti e tutto si incontrano e si ri-mettono in gioco. Inoltre la brocca contiene acqua, vino, qualcosa che disseta, che ha una forza riparatrice, ri-generante. E riparare, ri-generare, mi pare, un punto fermo del tuo lavoro».

L’autore apocrifo rigenera il libro impossibile, non-finibile, non-terminabile. Walser, in fondo, non voleva scrivere nessun mitico Libro, come il maniacale e immaginoso Schulz. Forse, addirittura, riga dopo riga, tentava di cancellare, con i suoi nuovi scritti, i libri precedenti. Per raggiungere alla fine il Grande Silenzio. Quello che il suo corpo troverà, morendo nella neve, il 25 dicembre del 1956. Grande Silenzio che già nei Fratelli Tanner aveva descritto, scrivendo in anticipo la sua stessa morte, come ci ricorda Luigi Sasso nel suo saggio «Herisau», in Fuori dal paradiso.

Mi piace pensare che debba esistere sempre, per alcuni misteri della letteratura, la necessaria custodia dell’inaccessibilità, il fatale prolungarsi del silenzio e del non-detto. Non a caso è stato proprio questo segreto, questo non-detto, a commuovere, ad ispirare, in critici e scrittori (cito, fra gli altri, Luigi Sasso e Paolo Buzi) un interesse inesauribile per uno scrittore inattuale e sommerso come Robert Walser.
Nonostante la grazia del suo silenzio, espressa attraverso migliaia di parole, il suo abisso continua a parlarci come un cratere di abbagliante bianchezza, dove le parole dei libri si generano e si cancellano – pauroso Leviatano della letteratura.

Ho voluto dare forma di libro a questo mio personale dialogo con questa vita imperfetta, programmatico capolavoro di inadeguatezza, storia di un fannullone inoperoso che ha scritto cose decisive nella letteratura destrutturandone la potente e superba perfezione.
Combinando e ri-combinando il mio io con quello di Walser, consapevole della sua follia ma anche della mia (questo libro è anche, volutamente e programmaticamente, un atto di confessione della mia disubbidienza, della mia silenziosa sovversione alle leggi del mondo e della psichiatria in quanto psichiatra), ho scritto un testo che potrebbe essere definito una “fantasia” intorno al destino di Robert Walser. Identificarmi con destini altrui è il mio costante esercizio, di terapeuta e di scrittore: un paradossale modo, da flâneur, di mescolare critica e narrativa, contaminando i generi letterari per non essere mai completamente riconoscibile. D’altronde, ogni scrittore ha il dovere di essere almeno duplice per non arrendersi a un unico senso, letale per ogni forma di immaginazione.

Il mio piacere maggiore, scrivendolo, è stato usare in modo consapevole una lingua limpida, neutra, leggera, avvicinandomi al sentimento di suprema ironia che pervade lo spirito di Walser. Ho spesso avuto la sensazione, capitolo dopo capitolo, che l’esercizio della scrittura fosse un atto di liberazione dal peso delle parole. In un magnifico testo sullo scrittore di Bienne, Il passeggiatore solitario, W.G. Sebald annota: «Con la precisione di un sismografo Walser registra le minime scosse che si verificano ai margini della sua coscienza, prende nota delle fenditure e dei corrugamenti che vengono a prodursi sul terreno del pensiero e delle sue emozioni – qualcosa che ancora oggi la scienza psichiatrica è lontana dall’immaginarsi». Sperando che la psichiatria, oggi, abbia ancora il potere di immaginare e non solo di classificare.

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Se è vero che ogni scrittore inventa, borgesianamente, i suoi precursori, offro al lettore anche questa breve pagina, tratta dal Moby Dick di Hermann Melville, dove scopro immagini che anticipano alcuni temi di Walser (la grazia che nasconde l’abisso) e mi convincono che la letteratura sia sempre come un’unica casa, composta da innumerevoli stanze, nel passato, nel presente, nel futuro, dove continuano a scorrere gli stessi venti, anche se da secoli o luoghi diversi:

«È in simili momenti, sotto un sole addolcito, tutto il giorno su ondate lente e lisce, stando seduto sulla lancia leggera come una canoa di  betulla e mescolata con tanta socievolezza ai moli flutti che come gatti di casa fanno le fusa intorno al capo di banda: è in questi momenti di sognante quiete che, contemplando la bellezza e lo splendore tranquilli della pelle dell’oceano,uno dimentica il cuore di tigre che vi palpita sotto e non vorrebbe di sua volontà ricordare che quella zampa velata nasconde solo un artiglio spietato. È in questi momenti che, nella sua imbarcazione, il vagabondo prova sommessamente verso il mare un sentimento filiale e fiducioso, come di terra; lo considera altrettanto suolo fiorito; e la nave lontana, che mostra soltanto le coffe degli alberi, pare avanzare a fatica non attraverso gonfie ondate ma attraverso l’erba alta di una prateria ondeggiante…».

Scrive, alla ricerca di un simile, felice equilibrio, il “mio” Walser:

«Certo, potevo scegliere un convento per chiudermici dentro e pregare, rispettato dalla chiesa e dai potenti. Ma è meglio il manicomio. Ci sono meno idee su Dio qui dentro, meno preghiere incomprensibili, meno riti da accettare. Qui si sopravvive calmi. Qui  si è sicuramente malati. Certificazioni, esami, firme, diagnosi. Perché bisogna avere sempre la testa inquieta? Il mondo non è già abbastanza agitato? Almeno opponiamoci al furore. Qui deve esserci la quiete».

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Henri Michaux ferma l’idea della follia proprio ai margini della malattia, dove la “grazia” non è ancora “abisso” e la difende come un sapere “diverso” e necessario. Così dice Michaux di chi allùcina il reale: «In qualsiasi modo la sua “idea” appaia agli altri, stramba, delirante, limitata (perché loro ne vedono soltanto la punta d’iceberg), per il folle è un’idea incomparabile, un’idea-cattedrale che lo piazza fuori delle critiche meschine e in un certo modo lo iscrive nei segreti dell’Universo. […] Il suo sapere, che è sapere per illuminazioni, non ha niente in comune con gli altri saperi e abita dentro di lui come un fantasma senza confini».

Pur relativizzando il concetto di follia come stato di possessione o perversione sovrannaturale, il pazzo è stato spesso visto come il “maniaco” (da mainomai, mainestai, essere invasi) che viene prescelto dagli dèi, che sente e vede ciò che altri non sentono o non vedono. Poi, con il passare dei secoli e le strategie della censura medica e politica, il «maniaco» diventa il «folle», da follis, mantice che si gonfia e si sgonfia per mano del fabbro che attizza il fuoco, simbolo evidente dell’alternarsi degli umori psichici. Alla fine è soltanto follem, sacco vuoto, vittima inerte, prigioniera di sintomi psicotici e istituzionali.

Ma Walser si libera dalle classiche procedure della follia-malattia. Sa che  una normale ricettività alle sensazioni e alle emozioni scorticherebbe vivi, e se ne difende. Una lieve ottusità, un’innocente indifferenza, lo protegge e consente la crescita dell’illusione. Nessun folle inventa dal nulla il suo delirio ma lo assembla pezzo per pezzo, con i propri fantasmi misti agli eventi e alle cose della realtà, per riparare quella che resta la sua frattura insanabile: la vita come lutto della vita. La parte «sana» e la parte «matta» di noi si intrecciano nella capacità di modulare la loro reciproca presenza, opponendo ordine a disordine, limite a non-limite, caos a rappresentazione. Walser reinventa i suoi legami con il reale, li rende simili a vibrazioni musicali, e inventa un universo leggero e frammentario, sintonico con quella grazia che sopporta di guardare l’abisso solo attraverso l’invenzione del suo stile (esempio di “finzione infantile” molto walseriana sono i temi di  Fritz Kocher). Come suggerisce il poeta rumeno Jan Vinea: «L’arte poetica è saper imporre al prossimo il proprio delirio».

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Chiudo questa breve divagazione con due citazioni. Qui l’inizio del mio libro:

«Mio giovane amico, mi sono fatto aprire io le porte di questo luogo: è proprio per un insopprimibile bisogno etico che ci sono entrato dentro, quasi senza accorgerne. Sì, mia sorella è d’accordo. Ma io più di lei. Etico è sparire. Non esserci più in mezzo alle persone che credono di essere vive. E quale luogo migliore del manicomio per affermarlo in modo definitivo, con la complicità della vostra inutile scienza? Ora posso intrecciare canestri e legare pacchi. Guardare scorrere le stagioni. Scrivere poesie e godermi la loro inesistenza. Il tempo in cui dovevo spiegare chi sono (ma mi vergogno dei monologhi di Simon nei Fratelli Tanner, tante ,troppe parole, che sequenza di immagini uguali!) è passato da un pezzo. Ho anche avuto troppo tempo per dirlo, ma allora i pianeti giravano con orbite graziose e io li assecondavo. Oggi li sento immobili e li guardo come un solo punto, non mi vanto di loro e certo non loro di me. Mi guardo le dita, c’è aria che le separa, tanta, troppa aria, e vibra fastidiosa nelle orecchie!».

Qui le parole di Robert Walser da “Studio intorno alla natura” (Seeland, Adelphi, 2017), che portano a noi la sua voce estrema e sottile, favolosa nella sua identità fra vita e morte:

«L’inizio e la fine si stringono la mano sorridendo. Apparire e scomparire sono una cosa sola. Nel bosco tutto è comprensibile. Ah, se si potesse vivere in eterno e in eterno morire!».

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