Stanislaw Lem
[…] Tale dunque era l’immagine iniziale, il punto di partenza da cui prendeva a snodarsi il sogno. Tutt’intorno qualcosa sembrava attendere un mio consenso, il mio accordo, un mio cenno interiore; sapevo, o meglio qualcosa dentro di me sapeva che non dovevo cedere all’incomprensibile tentazione e che quanto più avessi concesso tacendo, tanto più spaventosa sarebbe stata la fine. Non che me ne rendessi conto chiaramente: se così fosse stato avrei avuto paura, e invece non ne provavo affatto. Stavo lì e aspettavo. Dalla rosea nebbia che mi attorniava spuntava il primo tocco e io, inerte come un ciocco, sprofondato nella materia che sembrava imprigionarmi, non potevo né tirarmi indietro né muovermi, mentre la cosa palpava la mia prigione con dita cieche e insieme vedenti, e quella cosa era la mano che mi creava. Fino allora privo di vista, adesso vedevo: sotto le dita che mi tastavano la faccia emergevano dal nulla le mie labbra e le mie guance e, via via che quel tocco infinitesimale si estendeva, mi ritrovavo un volto e un torso animato di respiro, chiamati in vita da quel simmetrico atto creativo: simmetrico, sì, poiché io, creato, ero a mia volta creatore e facevo apparire una faccia ancora mai vista, estranea e insieme conosciuta. Mi sforzavo di guardarla negli occhi, ma le proporzioni alterate e l’impossibilità di dirigere lo sguardo in una qualsiasi direzione me lo impedivano, di modo che in un assorto religioso silenzio io e lei ci scoprivamo e insieme divenivamo. Ero già il me stesso vivente, ma potenziato al di là di ogni limite, mentre l’altro essere – una donna? – mi restava accanto immoto. […]
S. Lem, Solaris, Sellerio 2015. A cura di Francesco M. Cataluccio. Traduzione di Vera Verdiani.