Su aspetti pratici intorno alla poesia che vale la pena approfondire
In questi anni ho assistito a numerose presentazioni di libri di poesia e quasi mai qualcuno è riuscito a entrare nel merito del libro, piuttosto il libro stesso diviene motivo di dibattito intorno allo stato di salute della poesia contemporanea, alla definizione di gruppi a sostegno di una o di un’altra tesi. Come se il libro da sé tutto sommato non fosse sufficiente a mostrare il valore della poesia ma sempre avesse la necessità di legittimarsi rispetto a qualcos’altro. Le parole intorno ai libri di poesia mi ricordano sempre più i discorsi vuoti intorno alle collezioni d’alta moda – ogni anno appiccicabili sopra a qualsiasi collezione; la differenza non conta, è il vuoto intorno alla parola il diktat. Se invece avessimo la pazienza e la serietà di considerare ogni libro per quel che è e basta, non in rapporto a ciò che avrebbe potuto essere o in aderenza ad un certo gusto, allora sarebbe anche più semplice per i lettori di poesia districarsi meglio in questa giungla che sono diventate le pubblicazioni in versi.
Parliamo di numeri: ogni anno vengono pubblicati centinaia di titoli (diverse decine solo dalle case editrice più influenti) e ogni volta ogni libro pubblicato pare un prodigio in mezzo al marciume della contemporaneità. Tutto è grandioso! Spesso la quarta di copertina è interscambiabile, si potrebbe spiccicare da un libro ad un altro senza che nessuno se ne renda conto. Per ovviare a tutto questo basterebbe entrare nel merito dei libri, evidenziarne i punti di forza e i difetti, lo sviluppo (ammesso che ci sia stato) nella storia linguistica, tematica e di pensiero di un autore. Avere la forza, come editori, di dire di no anche ad autori quotati (per quanto sia ridicolo con la poesia parlare di autori quotati) quando presentano libri impresentabili, chiusi in un cortocircuito culturale autoreferenziale e perciò inutile, legittimati solo dal nome in copertina – di esempi in questo senso ce ne sono almeno una dozzina tra i poeti nati tra gli anni Trenta e Cinquanta.
La debolezza di molta poesia contemporanea sta proprio qui: chi scrive e chi legge poesia, sa cosa aspettarsi, non è pronto a sorprendersi più. Di poeti abili ce ne sono fin troppi, di poeti autentici pochissimi. Liberarsi dal gusto corrente (meglio sarebbe dire dalla corrente di appartenenza) sembra un’impresa impossibile. Decidere a priori a che tipo di scrittura appartenere, darsi dei limiti concettuali sono l’atteggiamento comune. In questo modo il gusto è rispettato, il tema svolto: chi scrive dà una giusta prova d’appartenenza, per questo rientra nella congrega, finalmente pubblica!
…L’intromissione ipertrofica dell’Io nella lirica contemporanea che è – si dice – inaccettabile. «Chi crede di essere lui? Cosa pensa che sia la sua vita? Crede di potersi ergere a modello esemplare? Perché mai a qualcuno dovrebbe interessare la vita di un perfetto sconosciuto?». Nessun poeta crede che la sua esperienza di uomo e di scrittore possa valere per tutto e per tutti, né è tanto ingenuo da caricare le proprie poesie di un valore conoscitivo definitivo, considerato il ruolo che altre discipline (specie scientifiche) hanno assunto oggi. Il punto è un altro: ci sono cose che per essere dette necessitano di una presenza prepotente della prima persona, poi, se anche ad altri interesserà, tanto meglio. In questo modo si realizzerà quell’identificazione che è anche fusione emotiva e linguistica tra lettore e scrittore; che è il punto decisivo di ogni opera letteraria. Peggio è compiacersi di testi poetici che dissimulano la presenza di un Io perché in sede concettuale lo considerano inaccettabile e fanno del proprio testo una caricatura grottesca di se stessi.
Paolo Cosci